Apologia della politica

banner FSI per sitodi Andrea Franceschelli (ARS Abruzzo)

Uno studio del sociologo Ivan Krastev, “La protesta globale”, pubblicato lo scorso 30 giugno su “Aspenia”, la rivista dell’Aspen Institute, fornisce una visione cruda, ma molto chiara, dello snaturamento della democrazia nella sfera politica.

Prima di riportare quanto scritto da Krastev, che nel descrivere le dinamiche oggetto del suo studio rivolge lo sguardo al panorama mondiale, vorrei focalizzare l’attenzione su alcune caratterizzazioni italiane.

Dalla questione morale posta da Berlinguer nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, ai  colpi di mano di Andreatta, passando per le indagini di “Mani Pulite” e arrivando ai nostri giorni alla pubblicazione del libro la “Casta” di Rizzo e Stella e al successo elettorale del M5S alle politiche del 2013 con lo slogan “mandiamoli tutti a casa”, si evince un trentennale stillicidio perpetrato ai danni della “politica” da parte di chi detiene i mezzi per indirizzare l’opinione pubblica.

In effetti se pensiamo ai progressi sociali ottenuti grazie all’applicazione del modello Costituzionale italiano dal 1948 alla fine degli anni’70, viene da chiedersi come, chi quei progressi non li voleva, poteva porvi un freno. In una prima fase i “nemici del modello costituzionale” hanno pensato di influenzare, grazie alla televisione commerciale, che muoveva i primi passi in Italia proprio alla fine degli anni ‘70, l’opinione pubblica distraendola con un modello economico e sociale alieno rispetto a quello italiano, facendogli quindi “sognare” un mondo patinato e luccicante di cui si nascondevano le mille ombre e le mille contraddizioni: Berlusconi ci ha fatto sognare l’America, pur essendo, fortunatamente, italiani. Dopo lo scandalo di “Tangentopoli”, che aveva fatto tabula rasa dei principali partiti politici, la politica è stata “salvata” da chi politico non era: un imprenditore che aveva sapientemente creato il suo elettorato con 15 anni di TV.

A distanza di venti anni da quel 1994, i “nemici del modello costituzionale” hanno cambiato arma di distrazione e dalla TV sono passati a internet e ai social network per assestare il definitivo colpo alla democrazia rappresentativa che, occorre sottolinearlo, è l’unica forma di democrazia possibile.

Veniamo quindi a Krastev, le cui parole spiegheranno meglio cosa ho voluto dire. Ne “la protesta globale” l’autore si interroga sulle motivazioni che hanno spinto masse di cittadini ad animare proteste nei diversi angoli del globo terrestre, sulle forme di organizzazione, e sugli effetti che queste proteste hanno avuto.

Il quadro che ne esce è sconcertante e allo stesso tempo illuminante per capire in che misura la democrazia sia in pericolo. Ancor più sconcertanti risultano le considerazioni che si devono trarre per stabilire chi sta mettendo in pericolo la democrazia: i cittadini, che tanto più cittadini non sono, avendo abdicato al proprio ruolo politico, disprezzandolo.

Guai, nel 2014, a sbandierare pubblicamente la propria militanza politica, senza poi coprirsi di vergogna!

Scrive Krastev:

Sebbene alcune di queste manifestazioni siano state organizzate dai partiti d’opposizione e dai sindacati, com’era consuetudine in passato, il grosso delle proteste più spettacolari non li vedeva tra gli organizzatori, ma tra i bersagli. Sono state queste manifestazioni prive di regia, di palchi e di arringhe dei politici che sono assurte a simbolo del movimento. Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana.”

Continua il sociologo

Si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale.[…]

La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva.

Nella maggior parte delle proteste i manifestanti non descrivono la politica come un insieme di questioni, ma come un modo di essere. La sollevazione ha avuto le connotazioni di una trance collettiva, di un’allucinazione di massa.

I manifestanti esprimevano sentimenti apertamente anti-istituzionali e di grande diffidenza verso sia il mercato che lo Stato; si dicevano contrari alle diseguaglianze sociali, ma anche a qualsivoglia forma di redistribuzione del reddito: la condivisione è una decisione personale, non dev’essere imposta dall’alto.[…]

Nel complesso, le piazze hanno ignorato i partiti politici, diffidato della stampa, rifiutato di riconoscere una qualsiasi leadership e rigettato tutte le organizzazioni formali, affidandosi a internet e ad assemblee locali per dibattere e prendere decisioni. “Questa è una differenza culturale implicita, ma lampante tra la moderna protesta giovanile e quelle del passato”, ha notato il giornalista Paul Mason. “Chiunque appaia anche lontanamente un politico di carriera, chiunque tenti di adoperare una qualche retorica o sposi un’ideologia è accolto con un disgusto viscerale.

I manifestanti sono individui esasperati. Amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo. Diffidando delle istituzioni, non sono interessati a prendere il potere; sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo. Descrivono il loro attivismo politico quasi in termini religiosi, sottolineando la rivoluzione dell’anima e il cambiamento mentale ispirati dalla loro esperienza di piazza. È una rivoluzione a cui ognuno è tentato di prendere parte, spinto dall’indignazione e guidato dalla speranza. Estrema destra ed estrema sinistra vi si sentono entrambe a proprio agio; dopo tutto, è una rivoluzione di brava gente contro governanti cattivi.[…]

È lo spirito libertario che tiene insieme le manifestazioni contro il regime autoritario in Egitto con Occupy Wall Street.[…]

Le persone non credono più che i politici – chiunque essi siano – possano rappresentare i loro interessi e ideali.[…]

Nelle sue corrispondenze per La Vanguardia sulla “rivoluzione dell’anima” degli indignados, il reporter Andy Robinson ha osservato che “l’iconica piazza centrale di Madrid, Puerta del Sol, ha visto uno strano incontro tra Medioevo e era digitale […] perché le proteste del xxi secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali. A quel tempo le persone non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito; manifestavano per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male.

Nel suo notevole libro Controdemocrazia, il filosofo politico francese Pierre Rosanvallon coglie al meglio la natura sia pre che post-politica delle nuove forme di attivismo civico. Rosanvallon ha preconizzato l’emergere di proteste prive di leader come strumento per trasformare la democrazia nel xxi secolo. […] Per Rosanvallon è chiaro che passo dopo passo la “democrazia positiva delle elezioni e delle istituzioni legali si troverà assediata dalla sovranità negativa della società civile.” La sovranità popolare si affermerà come potere di rifiutare: non aspettiamoci leader politici con visioni di lungo periodo o movimenti politici capaci di ispirare progetti collettivi. Non aspettiamoci partiti politici in grado di catturare l’immaginario dei cittadini e assicurarsi la lealtà dei loro seguaci. La democrazia del futuro apparirà molto diversa: la gente salirà alla ribalta solo per rifiutare determinate politiche o cacciare singoli personaggi politici. I conflitti sociali determinanti che daranno forma allo spazio politico saranno quelli tra cittadini ed élite, non tra destra e sinistra. La nuova democrazia sarà una democrazia del rifiuto. […] non chie­dete ai dimostranti cosa vogliono: essi sanno solo ciò che non vogliono. La loro etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto in blocco del capitalismo globale che ha connotato il movimento Occupy Wall Street; oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione fer­roviaria di Stoccarda. Ma il principio è lo stesso: abdicazione a qualsiasi scelta e attivismo politico confinato unicamente al rifiuto. Le proteste pos­sono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un gene­ralizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network. […] L’elettore odierno svolge essenzialmente lo stesso ruolo del leggendario Pavel Pichugin, il popolare buttafuori dei più esclusivi night club russi che ha il potere supremo di stabilire chi far entrare e chi no; ma non ha alcuna voce in capitolo sul tipo di musica suonata nel club. […] per svolgere il loro ruolo simbolico le proteste devono rispondere a determinati criteri: essere di massa e spontanee, ovvero non organizzate da un partito politico; mettere insieme persone che in condizioni normali non farebbero gruppo; rinunciare del tutto – per incapacità o disinteresse – a formare partiti o a formulare alternative politiche; parlare in termini morali, non politici. In sintesi: devono essere come i movimenti di protesta cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.

Nel 2011, la rivista Adbusters pubblicò l’ormai noto poster raffigurante una ballerina che danzava sull’iconico toro della borsa di New York, facendo appello a occupare Wall Street. In cima al poster campeggiava la scritta: “Qual è la nostra unica richiesta?” In una democrazia senza rappresentan­za, ogni movimento politico ha diritto a una unica richiesta: può essere mol­to concreta, come ridurre il prezzo del biglietto dell’autobus a São Paulo oppure bloccare il progetto di ricostruzione della stazione di Stoccarda. In questi casi, c’è una concreta probabilità che la richiesta venga accolta. Ma la rivendicazione può anche essere grandiosa, come abolire il capitalismo, e allora essa risulta fine a se stessa. Il punto è che per avere successo, la protesta dev’essere o estremamente concreta, o puramente simbolica. La via di mezzo – il vasto, caotico spazio della politica reale – è assente. […]

Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. […]

le proteste lasciano l’iniziativa politica nelle mani delle stesse élite contro le quali si scagliano: sta a queste distillare selettivamente il messaggio della piazza e trarne le conseguenze, elaborando una risposta alla crisi.[…]

Le proteste attuali hanno più a che fare col disimpegno che con la richiesta di ascolto. Esse non lanciano nuovi attori politici, né ricostruiscono la fiducia nei governi; piuttosto, fanno della sfiducia nelle istituzioni una regola di condotta.

Numerosi commentatori vedono in queste proteste una sorta di “rivoluzione non governativa”. In un certo senso hanno ragione: molti degli attivisti sono membri di ong e la loro insistenza sul controllo e sulla trasparenza rispecchia la cultura del terzo settore.[…]

Il messaggio anti-istituzionale delle proteste spinge infatti le giovani generazioni verso un attivismo centrato su internet e li disincentiva a pensare in termini organizzativi.”

Con questo scenario, che altro non è se non la dura realtà, o ci si abbandona a fare spallucce e si butta giù la pillola azzurra oppure ci si chiede cosa fare.

Se i nostri nemici ci hanno messo nelle condizioni di odiare la politica, l’unica cosa che possiamo fare è amarla. Dedicarci a lei, organizzarci politicamente, costruire un partito politico come ci ha insegnato quella classe dirigente a cui dobbiamo tornare ad ispirarci.

Dobbiamo abbandonare quelle stupide idee che ci hanno inculcato negli ultimi anni i nuovi servi dei nostri nemici.

Dobbiamo ripudiare l’idea che basta protestare per ottenere qualcosa e quindi dobbiamo disprezzare chi ci invita a farlo. Penso ai vari movimenti che iniziano con il NO seguito da un qualcosa: NO TAV, NO TTIP, ma anche NO EURO. Chi non sceglie la via dell’organizzazione politica, perché “a lui non gli interessa la politica” si merita la TAV, il TTIP e l’EURO.

Le trasformazioni della società in cui oggi viviamo, radicalmente diversa da quella di 30 anni fa, sono il frutto NON di un complotto giudaico-pluto o pippo-massonico, ma il risultato di un’attività POLITICA sapientemente portata avanti da una esigua minoranza ORGANIZZATISSIMA.

Il punto cruciale è quindi nell’organizzazione politica.

IN DEMOCRAZIA CHI SI ORGANIZZA VINCE.

Pare quindi scontato che i movimenti di protesta non organizzati politicamente NON SERVONO A NULLA.

Questo vale anche  per girotondi, popolo viola, occupy wall street, greenpeace, indignados e – come rifiuto della democrazia rappresentativa – anche per il M5S.

L’1% sta vincendo e se il restante 99% non la smette di prendersela con la politica, continuerà a vincere per sempre, ma come ho già avuto modo di dire VINCEREMO NOI.

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Una risposta

  1. 26 Aprile 2016

    […] La “società civile” delle manifestazioni e dei referendum ha palesato tutta la sua carica sostanzialmente individualista e una conclamata incapacità di generare un cambiamento, dimostrandosi spesso funzionale agli interessi dei globalizzatori (“…le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali. A quel tempo le person…”). […]

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