In risposta all'intervento di Moreno Pasquinelli «SOVRANISMI DI SINISTRA, DI DESTRA E… DI CENTRO»

Pubblichiamo la nota del socio ARS Abruzzo, Domenico Di Russo, in risposta all'articolo di Moreno Pasquinelli «SOVRANISMI DI SINISTRA, DI DESTRA E… DI CENTRO».

 

"Caro compagno Pasquinelli,

 

nel suo ultimo intervento ha definito l’ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità) come il «tentativo più nobile e forse politicamente più avanzato» di «dare rappresentanza politica alla coscienza infelice della borghesia, o alla nostalgia della Prima Repubblica», sognando addirittura il «ritorno al piccolo vecchio mondo antico dell’Italia democristiana», collocando pertanto l’ARS al centro dello schacchiere politico, almeno secondo le categorie attraverso le quali lei interpreta la realtà.

Nonostante io sia un iscritto all’ARS e per di più un militante del gruppo regionale abruzzese, vorrei rispondere a questa sua tesi a titolo puramente personale, senza compromettere l’associazione e senza tuttavia celare la speranza che in queste mie considerazioni possa ritrovarsi la gran parte dei compagni compatrioti dell’ARS.

Prima però mi permetta un breve inciso autobiografico: sono il primogenito di una modesta famiglia della piccolissima borghesia di una città di provincia, Pescara. Mio padre, diplomato, che proviene da un’antica famiglia contadina di mezzadri prima e piccoli proprietari terrieri poi, è un Sovrintendente della Polizia di Stato; mia madre, anche lei diplomata, proviene da una famiglia tradizionalmente operaia che con mio nonno, dopo molti sacrifici, si mise in proprio nell’artigianato. Quanto a me, sono il primo e unico laureato sia da parte paterna che da quella materna; dirò di più: sono un giovane dottore di ricerca in linguistica alla ricerca di una borsa post-dottorale in giro per il mondo, dunque attualmente disoccupato. Se si chiede quale possa essere il mio profilo politico, le rispondo senza esitare che mi sono sempre considerato e continuo a considerarm iun marxista, un marxista critico: ho sempre cercato di assimilare e implementare la critica marxiana al Capitale; continuo ad apprezzare molte delle riflessioni di Lenin; stimo e cerco di approfondire la produzione scientifica di autori che, pur senza essere marxisti, come Keynes e Galbraith, o anche secondo un approccio culturalmente non lontano dalla critica marxiana, come nel caso di Sraffa e Minsky, erano fortemente critici verso i meccanismi di riproduzione, in particolar modo finanziari, del modo di produzione capitalistico; ho sempre eletto e continuo a eleggere Gramsci a nume tutelare personale, ritenendo che quel mostro strano che fu il Partito Comunista italiano sia stato ideologicamente tutto fuorché marxista e culturalmente – nel senso più alto della parola cultura – tutto meno che, ahimè, gramsciano.

A questo punto, dati il suo sistema di riferimento e gli argomenti svolti nel suo ultimo intervento, si chiederà: «ma cosa diavolo c’entra mai questo qui con l’ARS?». Cerco di spiegarglielo, articolando il mio ragionamento attraverso 8 punti essenziali.


1. La questione sollevata da Stefano D’Andrea, e raccolta da lei e da quanti hanno commentato le sue parole, mette sotto la lente dell’osservazione politica – anche qui nel senso più alto e pieno della parola – il sistema di riferimento fondato sulla dicotomia politica sinistra/destra, con l’aggiunta del centro, da non confondere col moderatismo, che in realtà è un approccio che può caratterizzare tanto una politica di destra quanto una politica di sinistra, al pari dell’estremismo. Ora, è del tutto evidente che la questione è cruciale e si riduce al problema fondamentale se abbia ancora senso o meno leggere la politica secondo le categorie destra e sinistra e, nella fattispecie, se l’ARS sia un’associazione di destra, di sinistra o, come lei sostiene, di centro. È un problema che personalmente mi sono posto, come credo abbia fatto chiunque si sia iscritto all’ARS, e ritengo si tratti di una questione ancora aperta, come dimostrano le discussioni degli ultimi giorni, sulla quale è beneche l’ARS cerchi una sintesi se non definitiva per lo meno ampiamente condivisa, perciò la ringrazio per aver stimolato la discussione su un punto che rischierebbe altrimenti d’essere lasciato in un cono d’ombra, favorendo l’insorgere di equivoci e il proliferare di ambiguità.

Analizziamo le categorie sinistra e destra. Sitratta di categorie storiche, socialmente motivate a partire dalla Rivoluzione Francese, su cui, a mio avviso, si può essere d’accordo con Costanzo Preve (che Diego Fusaro, che avete intervistato di recente, conosce molto bene), per il quale l’ipotesi di Norberto Bobbio secondo cui tale dicotomia riposerebbe sul concetto di uguaglianza, laddove la sinistra la persegue e la destra la contrasta, presuppone uno scenario che non c’è più, vale a dire, neanche a farlo apposta, lo scenario della sovranità monetaria degli Stati Nazionali a garanzia della reale possibilità per un governo di programmare una politica economica di sostegno al welfare state oppure di contrazione dello stesso. Perciò, quando con la grande controffensiva reazionaria controriformista lanciata alla fine degli anni Settanta e culminata con il punto di catastrofe del divorzio fra Banche Centrali e Ministeri del Tesoro realizzato a catena nel corso degli anni Ottanta dai paesi di un Occidente sempre più tecnocratico e oligarchico, gli Stati Nazionali furono espropriati della loro sovranità monetaria dai grandi gruppi finanziari e multinazionali deterritorializzati, la dicotomia sinistra/destra si è ridotta di fatto a mero meccanismo artificiale di narcotizzazione politica e di galvanizzazione elettorale. Tanto più fuorviante se si tiene conto del fatto che, a partire dagli anni Novanta, è stata proprio la sinistra riformista (Clinton, Blair, Prodi-D’Alema, ecc.) a introiettare l’apparato concettuale del capitalismo finanziario e ad aderire al fondamentalismo globalista, realizzando l’uno e l’altro tramite la libera circolazione dei capitali in funzione di un processo ben più profondo di centralizzazione del Capitale e di attacco mondiale di classe contro il Lavoro, quest’ultimo iniziato per la verità già sul finire degli anni Settanta. In tal senso, lapidaria è la celebre dichiarazione di Gianni Agnelli: «oggi in Italia un governo di sinistra è l’unico che possa fare politiche di destra».

A questo punto potrebbe essere tentato di rispondere che, relativamente all’Italia, il PDS-DS-PD (che grazie al riduzionismo economicistico del PCI ha finito con l’assimilare lentamente e inesorabilmente le ragioni del Capitale) non è un vero partito di sinistra. Lei stesso, del resto, critica, a ragione, Alberto Bagnai per il fatto di accomunare tutte le sinistre in un unico grande calderore politico a sostegno del fondamentalismo globalista e del progetto eurocratico, sottolineando come in realtà all’interno del campo della sinistra ci sia stata e ci sia un’ampia varietà di approcci e posizioni. Riconoscerà però che proprio questo argomento equivale a darsi una bella zappa sui piedi perché innesca una domanda che spacca dritto al cuore il suo sistema di categorizzazione politica: se le sinistre sono così tante e così diverse, che senso ha riunificarle sotto la grande categoria della sinistra? In altre parole, perché ricondurre tutte queste posizioni che partono da premesse teoriche non sempre condivise e propongono strategie spesso inconciliabili o, ancor peggio, antitetiche? Ecco allora che il problema diventerebbe ancor più sostanziale: cosa s’intende in definitiva con sinistra? E cosa s’intende specularmente per destra? Così facendo temo che non ne caveremo mai niente e neanche fra cinquant’anni saremo riusciti a trovare un punto d’incontro giacché, se è vero come è vero che «l’estremismo è la malattia infantile del comunismo», ci sarà sempre chi si riterrà non solo più a sinistra degli altri ma crederà anche di parlare in nome dell’unica “vera” sinistra. E analogamente per la destra.

Come vede, siamo in un cul de sac. L’unico modo per venirne fuori con onore e con intelligenza è non fossilizzarsi, sapersi adattare, pena l’estinzione. Cosa voglio dire? Che interpretare la realtà attuale con le categorie destra e sinistra è come programmare un viaggio sulla Luna restando nella concezione tolemaica dello spazio. In questa congiuntura, non ci sono più le condizioni storiche e sociali che rendono valide le premesse del suo sistema di riferimento politico, per cui le categorie politiche di quest’ultimo non sono più attuali, non aderiscono più alla realtà quotidiana: tant’è che se ragioniamo nei termini della dicotomia sinistra/destra non ci raccapezziamo più, non comprendiamo la realtà, non riusciamo più nemmeno a comprendere noi stessi e a riconoscerci e, quel che è peggio, non riusciamo più a spiegare i fenomeni culturali, sociali ed economici che attraversiamo. Tutto ci sfugge.

 

2. Riconosciuta l’inservibilità di categorie quali sinistra, centro e destra, bisogna passare al vaglio anche tutte le altre nozioni che rimandano a queste categorie. Dal momento che lei, Pasquinelli, ha sostanzialmente avanzato l’ipotesi della matrice borghese dell’ARS, seppur della nobile tradizione della coscienza infelice della borghesia, di cui beninteso anche Marx era espressione, mi soffermo qui sulla dicotomia proletariato/borghesia. Ebbene, chi sono oggi i proletari? E, di contro, chi sono oggi i borghesi? Come si vede, un’altra questione cruciale.

Una questione cruciale che d’altro canto può essere efficacemente risolta soltanto riconoscendo il carattere aperto tanto della categoria proletario quanto di quella borghese. Proprio un’attenta lettura di Marx, come aveva recepito anche Gramsci, permette infatti, per prima cosa, di inquadrare storicamente queste categorie, che appartengono allo stato nascente del capitalismo e alla sua fase pienamente industriale, quando il proletariato designava fondamentalmente la classe operaia allorché la borghesia configurava tanto il padronato (l’alta borghesia) quanto la classe dei liberi professionisti (la media borghesia). In secondo luogo, giusto alla luce dei meccanismi di riproduzione del Capitale, appare chiaro come la condizione di proletario sia plasmata sulla base dei processi di centralizzazione della proprietà del Capitale e di progressiva proletarizzazione delle classi lavoratrici, con la conseguente polarizzazione dei rapporti di forza tra una ristretta minoranza di padroni ultracapitalisti che concentrano nelle proprie mani la proprietà dei mezzi di produzione e una sconfinata maggioranza di lavoratori alienati e depauperati. In sostanza, al di là della correttezza o meno delle previsioni di Marx e delle proposte teoriche formulate sin qui dai diversi pensatori marxisti, la nozione di classe non delimita rigidamente un unico ceto sociale definendone una volta per tutte caratteristiche e ragion d’essere; la nozione di classe riunisce plasticamente tutti quei ceti, quei blocchi sociali che, in quel preciso momento storico e in quel particolare contesto sociale, ne condividono i tratti essenziali. Del resto, è noto che, in Inghilterra, all’indomani della Rivoluzione Industriale, quando la nascente industrializzazione cominciava ad aver bisogno di manodopera, questa fu assicurata attraverso lo spopolamento forzoso dei contadini dalle campagne inglesi alla volta dei sobborghi industriali che cominciavano a formarsi nei principali distretti industriali. In poche parole, i rentiers cacciarono buona parte dei contadini dalle campagne, costringendoli a riversarsi in città dove questi, per ragioni di sussistenza, lavoravano come operai nelle fabbriche.

E oggi a cosa assistiamo? Non registriamo forse una graduale perdita dei diritti da parte dei lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, che alimenta da una parte il lavoro precario e dall’altra la massa di disoccupati? Non registriamo forse un immenso planetario processo di centralizzazione dei capitali che concentra la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di poche gigantesche compagnie multinazionali, non a caso sovranazionali, o di colossi finanziari che fagocitano le grandi industrie spezzettandole e distruggono la piccola e media impresa, esattamente come stanno radendo al suolo la piccola e media impresa italiana?

E allora chi sono oggi i proletari? Soltanto gli operai dei grandi complessi industriali? E i dipendenti statali che hanno visto eroso il proprio potere d’acquisto oltre ogni limite, cosa sono? Piccolo-borghesi? E i giovani precari, cosa sono? Aspiranti professionisti della media borghesia? E gli immigrati costretti al lavoro sommerso? E i disoccupati privi di qualsiasi occasione di riscatto? E gli agricoltori tediati dalla odiosa e non casuale legislazione comunitaria europea in tema di produzione agricola, come li classifichiamo? Come contadini reazionari portatori della tradizionale paura per i grandi possidenti, per giunta plagiati dalla cultura cattolica conservatrice? E gli artigiani che hanno reso grande la tradizione manifatturiera italiana e che oggi sono allo stremo, come li cataloghiamo? Come piccoli imprenditori che tendono sotto sotto all’accumulazione, rafforzando il retroterra culturale della grande industria?

Appare dunque chiaro come, nell’attuale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico, non ci sia errore peggiore che ridurre banalmente il proletariato alla sola classe operaia, schiacciando pertanto l’anticapitalismo sulla categoria di sinistra, che vede nella tutela e nel riscatto del lavoro salariato e del proletariato la propria ragion d’essere. Ecco che le equazioni anticapitalismo = sinistra, sinistra = difesa del proletariato all’interno della lotta di classe, proletariato = manodopera salariata industriale, perdono fondamento e risultano perciò sempre più prive di valore.

 

3. Come si vede, tutto cambia e il complesso di nozioni e categorie passate rapidamente in rassegna più sopra non fornisce più la bussola più affidabile per orientarsi in questo mondo che cambia. Cosa facciamo dunque? Ci disperiamo perché la sinistra ha disatteso ciò che avrebbe dovuto essere? Passiamo il resto della nostra vita a correggere chiunque accusi la sinistra, peraltro a ragione, di aver premuto l’acceleratore sul capitalismo finanziario e globalista, sostenendo che non si sia trattato in realtà della vera sinistra ma di un riprovevole surrogato diretto dai più biechi impostori? Ci flagelliamo perché dirsi di sinistra ormai fa male e significa tante cose che mai avremmo pensato e implica tante colpe che mai avremmo voluto e con le quali, per onestà intellettuale, dobbiamo pur tuttavia fare i conti? Passiamo quindi i nostri giorni scomparendo un po’ per volta, dando così il nostro piccolo contributo all’estinzione di un fronte del Lavoro che si opponga duramente al Capitale? Non mi pare, onestamente, una strategia vincente. Già, perché si tratta di vincere questa che è solo la prima battaglia di una grande guerra. E, a questo proposito, sarebbe bene che chi abbia tradizionalmente militato sempre a sinistra impari a superare il complesso della sconfitta e la smetta di assumere, per uno strano senso di colpa che di fatto ha impedito l’elaborazione di un lutto, quello del comunismo storico novecentesco, modelli per definizione perdenti. Impariamo da chi, proprio all’interno della grande e complessa storia del marxismo, ha riportato vittorie importanti, sebbene non definitive. La lista non è neanche poi così breve ma non è il caso di stilarla in questa sede. Quel che conta adesso è capire che dobbiamo vincere questa prima grande battaglia, vale a dire il recupero della sovranità nazionale, e dunque delle forme che questa sottende (popolare, monetaria, ecc.), e cercare di stabilire quale sia il modo per conseguire questa vittoria.

 

4. Il primo passo, in tal senso, è individuare il nemico di classe. Come vede, assumo una terminologia e un’impostazione fondamentalmente marxiane. Ebbene, il nemico di classe è rappresentato da quell’8% della popolazione occidentale, al quale bisogna poi aggiungere le élite dei giganti emergenti del BRICS, per un totale che corrisponde a quello che, con le parole di Aldo Giannuli, potremmo definire il «Blocco sociale finanziario», il quale annovera tra le sue fila lo stato maggiore della finanza internazionale, la fascia sociale di “sostegno solidale” alla finanza e l’intera filiera legata ai prodotti finanziari derivati: nell’insieme circa 90 milioni di persone (pari all’1,3% della popolazione mondiale), sostenute dal cosiddetto «Partito della Finanza» (rimando per esempio a Gallino) che vede coalizzati due potentissimi alleati come l’industria militare (si vedano Mini, Vasapollo) e le élites politico-culturali (che comprendono la classe dirigente politica, imprenditoriale, giornalistica, culturale, in particolar modo quella baronale universitaria). Certo, esistono fra questi eccezioni illuminate, gruppi, associazioni o singole persone sinceramente progressiste e, a ben vedere, non si tratta di un fronte così monolitico come potrebbe sembrare. Tuttavia, ha prevalso finora al suo interno l’istinto del profitto a breve termine e la logica della lotta di classe contro il Lavoro nell’interesse comune della conservazione dei loro privilegi, nel tentativo di renderli sempre più inaccessibili. Questo blocco sociale, tra i tanti successi conseguiti, tra i quali la libera circolazione dei capitali, ha finito anche con l’essere l’anima del progetto politico dell’Unione Europea, sublimato dall’esperimento antistorico dell’unione monetaria realizzata con l’euro.

 

5. Una volta individuato il nemico, cosa deve fare un’associazione come l’ARS? A mio parere, ma credo o almeno spero di intercettare a grandi linee lo stato d’animo di buona parte dei militanti, l’ARS deve muovere dal principio di possibilità di trasformazione della realtà, che è insito nella critica marxiana al Capitale, attraverso il superamento di questo stato di cose in vista del fine ultimo strategico costituito dalla riaffermazione del primato dello Stato, e quindi della politica nella sua concezione più nobile, sull’economia: non la dissoluzione dello Stato auspicata da Marx e preconizzata come esito necessario dell’altrettanto necessario crollo del modo di produzione capitalistico dal quale deriverebbe necessariamente la rivoluzione socialista. Niente affatto, se non altro perché questi passaggi non sono per nulla necessari, la storia lo ha dimostrato. Personalmente non ho mai accettato l’idea che la realizzazione del comunismo dipenda dall’abbattimento dello Stato, ho sempre creduto che ci possa essere socialismo solo nella misura in cui esista davvero uno Stato. E gli strumenti per realizzarlo non possono che essere una vasta opera di investimenti pubblici nel campo della cultura e di tutti gli altri apparati statali, un grande piano di socializzazione dei mezzi di produzione relativamente alle grandi industrie strategiche, la rinazionalizzazione della banca centrale, la tutela del risparmio, della piccola e media impresa e delle imprese cooperative, e naturalmente una decisa opera di repressione finanziaria.

Se questo è il disegno strategico, quali sono però le mosse tattiche tramite le quali realizzarlo gradualmente? Penso che l’unico modo per conseguire questo fine sia coniugare il principio della possibilità di trasformazione della realtà, naturalmente negato e avversato dal fondamentalismo dogmatico liberista e marginalista, col principio di realtà. Anche concordando per un momento sulla categoria di proletariato, esistono oggi le condizioni sociali e culturali per una “rivoluzione proletaria” in senso classico? A mio modesto avviso, no. Per cui sostenerne l’inevitabilità come fa lei, Pasquinelli, non è attualmente fondato. Quello che invece si può e si deve fare è, analogamente a quanto proponeva Gramsci con le Tesi di Lione in riferimento a quella congiuntura storica, elaborare e promuovere un programma minimo comune di tutte le forze anticapitaliste e sovraniste.

In questo senso, anch’io critico la venerazione dogmatica della Costituzione della Repubblica Italiana del 1948, la quale, a ben vedere, è sempre stata tradizionalmente disattesa in molti dei suoi articoli, anche nei principi fondamentali. Pensare che l’Italia della cosiddetta Prima Repubblica fosse un paradiso poiché applicava alla lettera la sua carta costituzionale è storicamente, prima ancora che teoricamente, sbagliato. Certo però la Costituzione ha garantito e permesso la gran parte delle conquiste sociali, economiche e culturali dell’Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta. Dunque, per quel che mi riguarda, non è saggio eleggere la Costituzione quale unico punto di riferimento ideologico ma è necessario adottare la sua riaffermazione come primo passo tattico nella battaglia sovranista di recessione dai trattati europei e di uscita da questa unione monetaria. È in questo senso che concepisco la mia militanza nell’ARS.

 

6. Ma come si può vincere questa prima grande battaglia contro il fondamentalismo liberista e globalista che anima il Blocco sociale finanziario e guida il progetto politico dell’Unione Europea? Qual è questo programma minimo comune che può permettere un’opposizione veramente efficace al Capitale?

Il programma minimo comune cui L’ARS deve contribuire nel quandro di una rivoluzione sovranista e contestualmente costituzionalista non può che consistere nella ricomposizione di un Fronte Unico del Lavoro costituito da quei blocchi sociali finora disgregati e messi ad arte gli uni contro gli altri dal regime capitalista oligarchico e tecnocratico di cui l’Unione Europea a egemonia tedesca è solo una delle diverse espressioni. Quattro grandi blocchi sociali da riunire attraverso una sintesi politica di portata epocale, vale a dire: (a) il lavoro dipendente, sia pubblico (in particolare dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, della Sanità, della Pubblica Sicurezza, dell’Amministrazione, dei Trasporti, delle ahinoi sempre meno Aziende a partecipazione statale) che privato (operai e i quadri inferiori degli impiegati); (b) il lavoro autonomo (piccole e medie imprese, soprattutto agricole e artigianali); (c) il lavoro precario (in particolare, giovanile e immigrato); (d) il blocco dei disoccupati. Certo, si tratta di una sintesi difficile, la sfida è titanica, fa impallidire e tremare. Non riesco però a pensare a una proposta più radicalmente anticapitalista.

 

7. In definitiva, diviene quindi più chiara quale sia l’identità dell’ARS. L’ARS è una forza anticapitalista e sovranista che si propone quale suo fine costitutivo la recessione dai trattati europei, l’uscita dall’unione monetaria e il ripristino della Costituzione della Repubblica Italiana all’interno di un movimento sovranista, di cui anche il Movimento Popolare di Liberazione è una frazione, che potrebbe anche chiamarsi – ma si tratta di una mia proposta personale – Movimento di Liberazione Nazionale (MLN). Il tutto nel quadro di una cooperazione internazionale con le altre forze sovraniste dei paesi europei, specie quelli mediterranei, perché la battaglia che abbiamo di fronte si combatte nazionalmente ma si vince internazionalmente giacché il nostro nemico di classe, il Blocco sociale finanziario, è per sua natura transnazionale e deterittorializzato.

Così almeno l’ARS è stata concepita da Stefano D’Andrea e da coloro che vi hanno aderito fin dalla prima ora. E su queste basi ha aggregato militanti con storie politiche e sociali le più diverse ma che possono essere raccolti grosso modo in tre grandi culture: quella keynesiana e post-keynesiana, quella costituzionalista erede dei valori patriottici e solidali della Resistenza, quella, quorum ego, d’ispirazione marxiana e marxista. Senza tuttavia metterle in competizione ma anzi favorendo la ricerca di un punto di equilibrio che tra queste culture tutt’altro che antitetiche e inconciliabili è possibile, e quindi auspicabile, trovare e per il quale stiamo lavorando. E senza escludere le eccezioni rappresentate da quanti, pur provenendo da culture diverse, si siano ciononostante avvicinati a una di queste tre grandi componenti.

Ma c’è dell’altro. A uno sguardo più attento, ritengo infatti che, proprio per queste sue caratteristiche, il programma politico dell’ARS, che consiste per l’appunto nella recessione dai trattati europei, nell’uscita dall’unione monetaria e nel ripristino della Costituzione della Repubblica Italiana, abbia finito per delinearsi, nei limiti delle condizioni economiche e sociali dell’attuale congiuntura storico-politica, come l’essenza stessa di quel programma minimo comune di ricomposizione tattica del Fronte Unico del Lavoro contro il Capitale, che costituisce la premessa necessaria di quel grande movimento sovranista che ho proposto di chiamare MLN. Mi sembra cioè che l’ARS, tanto per la sua natura quanto per la sua operosità nell’organizzarsi sul territorio, si stia sempre più configurando come il cuore di quello che sarà il movimento sovranista nazionale. Non si tratta di una rivendicazione di superiorità né di una pretesa di direzione strategica. Si tratta semplicemente di un’interpretazione personale di una tendenza che mi sembra possibile riscontrare nella realtà in atto e che rafforza la mia adesione all’ARS, nonostante le critiche che ho spesso avanzato circa i ritardi che l’associazione secondo me registra su alcuni punti cruciali, come quello dell’istruzione e della ricerca, all’avanzamento del quale ho cercato – un po’ senza farmi capire fino in fondo e un po’ incompreso al di là delle mie reali responsabilità – di portare il mio contributo, cosa che continuerò nei prossimi mesi.

 

8. Questa dunque è l’ARS, o almeno così pare a me. Mi permetta di chiudere con due suggerimenti: (1) proprio per la natura profonda dell’ARS, eviterei di appiattire la discussione sulle posizioni del suo Presidente, sia perché Stefano D’Andrea ha sempre sottolineato la necessità di una sana militanza propositiva degli iscritti senza vincolarli all’adesione totale bensì a quella di un nocciolo duro di idee e di proposte sulle quali si deve poi però discutere, sia perché non condivido il riduzionismo personalistico di un’associazione composita come l’ARS sulle proposte del suo massimo dirigente; (2) eviterei, come ho già consigliato agli altri militanti dell’ARS, di polemizzare altrettanto personalisticamente con Bagnai o chi per lui se non altro perché intrecciare il dibattito politico con le dinamiche delle storie e degli scontri personali, sui quali non entro nel merito, danneggia il confronto e rischia di trascinare la discussione serrata in uno scontro sterile e puerile. Il che vale anche per le uscite pubbliche di Bagnai ovviamente come per quelle di molti dei protagonisti del dibattito attuale. Nel mio piccolo, mi limito a considerarli solo per i loro contributi scientifici, e dunque politici, e a non nominarli se non per ragioni strettamente legate all’analisi politica.

Spero di aver fornito un quadro più chiaro.

Saluti sovranisti e, perché no, comunisti!

 

Domenico Di Russo"

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