Sulle 24 ore e sulle lotte nella scuola. Chiudere i sindacati. Cancellare i POF

Riceviamo da Alessandro Chiavacci, iscritto all’ARS, e volentieri pubblichiamo.

Alessandro Chiavacci*

L’ultima idea  dell’esecutivo sulla scuola riguarda, come è noto, la proposta di elevare l’orario dell’insegnamento in classe dalle 18 alle 24 ore settimanali. Sulla demenzialità di questa proposta non c’è bisogno di spendere molte parole, basta interrogarsi sul significato didattico di questo aumento di carichi lavorativi, e contemporaneamente sulla logicità di fare concorsi a cattedre mentre si vorrebbero aumentare drasticamente gli orari di lavoro e mentre decine di migliaia di docenti abilitati e con lunga esperienza aspettano da anni di essere messi in ruolo. Basterebbe chiedersi se l’enorme aumento della produttività (monetaria) nella scuola degli ultimi venti anni (aumento degli studenti per classe; forte riduzione degli stipendi in termini reali; aumento del periodo dell’anno non pagato per gli insegnanti precari; abolizione delle supplenze brevi per non parlare dell’aumento dell’età pensionabile, comune a tutti, che costringerà ad insegnare fino ad età troppo elevate per il rapporto con gli studenti) non sia già più che sufficiente a garantire una maggiore produttività (monetaria) della scuola. Basterebbe chiedersi come reagirebbero i sindacati dei metalmeccanici o di qualunque altra categoria sindacale di fronte alla proposta del padronato di elevare l’orario settimanale a 53 ore settimanali rispetto alle 40 attuali.

Naturalmente questa proposta non passerà in questi termini esatti: i sindacati contratteranno una aumento parziale delle ore (solo 21, magari, e sosterranno così di aver difeso gli insegnanti dalle eccessive pretese del governo).

Ma gli argomenti di chi contesta queste proposte del governo sono sempre deboli, perché dimostrare fatti alla mano che l’orario dedicato all’insegnamento è molto maggiore, che lo stress e le malattie psicologiche legate all’insegnamento sono già rilevanti non può far presa in chi ragiona sugli insegnanti con la stessa ottica con cui guarda ai lavoratori di fabbrica, non è in grado cioè di comprendere qual’è il ruolo dell’insegnante e di rappresentarne il punto di vista. Perché il problema fondamentale è questo: che i sindacati della scuola (tutti, compresi quelli più combattivi e meno proni alle proposte della controparte, per esempio i Cobas e i Cub), non sono in grado, e non lo sono mai stati, di rappresentare gli insegnanti.  Il motivo non riguarda infatti la maggiore o minore combattività: i sindacati della scuola non sarebbero in grado di rappresentare gli insegnanti nemmeno se, per un assurdo caso del destino, decidessero una linea oltranzista volta a diminuire l’orario lavorativo e a raddoppiare i nostri  stipendi. Non sarebbero in grado, perché è la loro cultura ad impedir loro di rappresentarci.

La cultura rivendicativa sindacale è strutturata infatti sulla storia della rivendicazione operaia: sulla contrattazione dell’orario, dei ritmi, dello sfruttamento, orientata a soggetti che sono interamente dominati dal ciclo del capitale, di soggetti cioè che si trovano non in una situazione di subordinazione “formale” (per usare termini marxisti) rispetto al datore di lavoro, come lo sono anche i lavoratori della scuola, ma in condizioni di subordinazione “reale”, cioè dipendenti per  lo stesso svolgimento della loro attività dai comandi del datore di lavoro. Perché il problema è anzitutto questo: di identificare qual’è il ruolo, la figura sociale dell’insegnante. L’insegnante in termini giuridici è un lavoratore dipendente. Però la sua dipendenza non è uguale a quella dell’operaio di fabbrica, poiché domina le modalità dello svolgimento del suo lavoro e non può, in questo aspetto, essere sostituito da nessuno.

Verrebbe allora da dire che l’insegnante è un professionista, come direbbe qualcuno di cultura  liberale. Ma non è vero nemmeno questo. Perché il professionista, o il titolare di un contratto d’opera, realizzano la loro prestazione e se ne separano, delegando al committente l’inserimento del loro lavoro nel contesto più generale del mercato.

La figura dell’insegnante non è comprensibile cioè (e mi permetto, scusatemi, questa riflessione non proprio contingente) né in una prospettiva marxista, né in una prospettiva liberale. L’insegnante ha un ruolo diverso, incomprensibile entro quelle due culture. E’ il titolare di una Funzione Pubblica. E’ un portatore del Bene Comune. E’ uno strumento di cui la società si dota per trasmettere valori universali. Perciò né l’antropologia sindacale della rivendicazione sindacale (in ultima analisi legata all’idea marxiana secondo la quale la lotta degli ultimi, praticando il proprio interesse, INDIRETTAMENTE realizza il bene collettivo) né la cultura dell’individualismo liberale (legato all’idea che il perseguimento del proprio utile individuale, INDIRETTAMENTE, realizzi il bene collettivo) possono rappresentarlo. Perché il compito dell’insegnante, sia che si dedichi a quella parte del proprio lavoro che è l’istruzione, cioè alla trasmissione dei valori della propria disciplina, cioè valori universali, sia che si dedichi a quella parte della propria missione che è l’educazione, cioè alla trasmissione di valori umani, cioè valori universali, non deve perseguire INDIRETTAMENTE quei valori, ma li deve perseguire DIRETTAMENTE!

Un discorso sulla scuola non può perciò iniziare dal chiedersi “se e quanto le nuove proposte del governo siano sopportabili o quali siano le sue conseguenza sull’insegnamento, se alla perdita di potere d’acquisto del suo salario ci sia alternativa, ma dalla domanda: LA SCUOLA FUNZIONA? E accanto a questa, alla seconda: “L’EDUCAZIONE FUNZIONA??”.E allora bisogna ricominciare a interrogarsi su quale sia stato il significato profondo della riforma Berlinguer e della Autonomia Scolastica.Il progetto di Luigi Berlinguer era un progetto ambizioso. Non una serie di riforme; il suo progetto era quello di una Rivoluzione nella scuola. Una Rivoluzione per la quale il soggetto  portatore avrebbe dovuto essere  quello dei presidi manager.

Insomma: di fronte ad una scuola da razionalizzare, dove aumentare la produttività, i Presidi manager avrebbero dovuto portare quella rivoluzione che dagli insegnanti non ci si sarebbe potuto aspettare.

Il problema fondamentale è che quel progetto è sbagliato in radice. Perché i presidi non sono interni al processo educativo, e non possono in nessun caso intervenire in tale processo perché non hanno le competenze infinite che questo richiederebbe. Il preside può al massimo vessare gli insegnanti imponendo tutta una serie di obblighi ed obiettivi estranei ai fini dell’insegnamento; gravare i docenti con compiti inutili e surreali; magari in futuro procedere, quasi come se fosse un imprenditore, a governare un rapporto di lavoro pienamente privatizzato; ma non ha nessun potere di intervento nel processo educativo. Altro ruolo è quello di un vero imprenditore. L’imprenditore e la direzione di una fabbrica, ad esempio, sono proprietari del processo produttivo.

Il risultato di questa trasformazione della scuola non è stato tanto quello che paventavano i Cobas o la sinistra dei sindacati: cioè la formazione di scuole di serie A o di serie B a seconda della possibilità locali di accesso ai finanziamenti privati; ma piuttosto sommergere la scuola in una serie di compiti assurdi ed estranei all’insegnamento, cioè sommergere l’insegnante in una mole di carta e di dichiarazioni senza senso. La summa di queste scemenze surreali è il Pof (il piano dell’offerta formativa) che doveva caratterizzare la scuola “autonoma” nel progetto di riforma. Le sue “didattiche per competenze”. I suoi “obiettivi formativi specifici” e “trasversali”. I suoi “obiettivi cognitivi e non cognitivi”. Le sue “competenze, conoscenze, abilità”. E per finire nella pura demenza: la “certificazione delle competenze” agli studenti bocciati, quasi che la scuola debba certificare che “anche se lo studente non è stato promosso, qualcosa è comunque capace di fare..(!!)” e si potrebbe certamente continuare poiché la stupidità immensa di questi procedimenti- e l’umiliazione a cui sottopongono ognuno di noi quando ci obbligano ad  aderirvi- è ben presente in tutti gli insegnanti.

Il fatto che il lavoro dell’insegnante venga sommerso da compiti insulsi, da carte prive di senso, in definitiva, questa situazione di Follia e di Menzogna in cui ci troviamo a lavorare- non è un particolare né un caso. Mi immagino che si possa fare un parallelo con l’ Unione Sovietica degli anni ’60, quando dopo uno degli ennesimi tentativi di riforma, i funzionari delle aziende venivano costretti a “ragionare in termini di mercato”, cioè a simulare il mercato. Di fronte ad un potere diventato ormai folle, quei funzionari si comportavano come rischiano di fare i docenti delle scuole italiane, facevano per quanto possibile gli affaracci loro. Il caso è quello cioè di tentativi di riforma promossi da soggetti che non sono strutturalmente capaci di farlo. Per cominciare a parlare della scuola, bisogna cominciare perciò a indirizzare i Piani dell’ offerta formativa, la didattica per competenze, le certificazioni, i bla bla, insomma, per sintetizzare- l’intero progetto dell’ Autonomia scolastica- verso la sua naturale destinazione: il dimenticatoio. Poi discuteremo del ruolo che ha una definizione nazionale dei programmi, inevitabile, e delle eventuali integrazioni legate a necessità territoriali da apportarvi. Ma dopo. Poi discuteremo dell’educazione dei giovani.

Ma in questo ambito, dirà qualcuno, come difendersi dagli attuali piani di contro riforma, come difendere le nostre condizioni lavorative?

Certo, bisogna opporsi alla proposta delle 24 ore, e chi scrive si ritiene in prima persona impegnato a farlo. Però, togliamoci dalla testa che si possa organizzare, ora o in futuro, un “vero” sindacato degli insegnanti. Organizzare sindacalmente gli insegnanti è un contro senso. Sarebbe un pò come immaginare una organizzazione di preti per chiedere sconti sul Purgatorio. L’insegnante ha un altro fine: lo ripeto: è il portatore di valori collettivi. Chiedergli di organizzare i propri interessi privati è un controsenso. La debolezza sindacale degli insegnanti, tanto vituperata e criticata da chi non capisce la funzione dell’insegnante, non è un nostro difetto di fabbrica, magari dovuta alla scarsa disponibilità alla lotta delle insegnanti donne, come si sente dire, che hanno il marito a casa che lavora. E’ il nostro orgoglio e il nostro pregio. Solo le lobbies riescono talvolta a organizzarsi nella scuola. E in tal caso, finalmente, trovano l’entusiastico consenso e appoggio dei sindacati ufficiali, che finalmente riconoscono (!!!) una categoria cosciente dei propri diritti, in quanto antepongono il loro interesse privato al bene comune, mostrando di avere finalmente (!!) una vera coscienza sindacale!!

Ma allora, sto forse proponendo di non opporsi alle scelte governative, di non difendere le nostre condizioni di lavoro? Niente affatto. Sto solo dicendo che la forma in cui avviene la mobilitazione degli insegnanti non è sindacale, ma direttamente  politica. Non è lo sciopero, insomma, ma ..l’insurrezione. E per insurrezione ( o se volete, insorgenza) non intendo affatto (ma proprio, nemmeno di lontano) una qualche forma di resistenza sulle barricate, di scontri con la polizia o magari di lotta armata. Intendo la capacità che hanno soggetti collettivi che assumono la loro coscienza- di autodeterminarsi. Intendo l’insurrezione di alcuni collegi dei docenti e degli insegnanti che nel ’99 impedì il Concorsone a Luigi Berlinguer. Intendo i collegi dei docenti che oggi a Firenze bloccano tutte le attività integrative pomeridiane scolastiche. Intendo i collegi dei docenti o altre esperienze che domani bruceranno  i Pof. A questa rete di esperienze e lotte penso come forma di mobilitazione degli insegnanti.

 * Isis Redi-Caselli Montepulciano (SI)

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