LA RIFORMA TRIBUTARIA DELL'ARS – Documento per l'Assemblea Nazionale del 7 giugno 2015

Gli emendamenti al documento potranno essere presentati dai soci mediante commento al presente post entro martedì 19 maggio. Verranno sottoposti all’esame ed al voto dell’assemblea del 7 giugno gli emendamenti che raccoglieranno l’adesione di almeno 10 soci entro venerdì 22 maggio.

 

PARTE PRIMA: LE ANALISI

 

1. IL DETTATO COSTITUZIONALE

 

La Costituzione repubblicana contiene un granitico e potente indirizzo di politica fiscale sintetizzato in due righe:

Art. 53Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

I padri costituenti, nella cristallizzazione dei principi costituzionali, hanno voluto inserire il principio di “equità” come cardine del sistema tributario italiano.

È a tal proposito interessante leggere l’intervento dell’Onorevole Scoca, tenuto il 23 maggio 1947 davanti all’Assemblea Costituente, per poter capire, in modo pieno, la portata del principio contenuto nell’art. 53:

Se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria. Non è questo il momento più opportuno per attuarla, ma credo necessario che si inserisca nella nostra Costituzione, in luogo del principio enunciato dall’articolo 25 del vecchio Statuto, un principio informato a un criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e più conforme alla evoluzione delle legislazioni più progredite.[omissis] Da un punto di vista scientifico (se di scientifico c’è qualcosa nella materia finanziaria, o nella scienza delle finanze) si può dimostrare, come è stato dimostrato, che, pur partendo da uno stesso principio, è possibile giungere sia alla regola della proporzionalità che a quella della progressività. Ma, lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività. Le dispute dei dotti su questo tema mi hanno lasciato sempre perplesso; non così le osservazioni d’ordine pratico. Ho sempre pensato che chi ha dieci mila lire di reddito e ne paga mille allo Stato, con l’aliquota del 10 per cento, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha centomila, dopo aver pagato l’imposta del 10 per cento in base alla stessa aliquota, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo. Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio. Il mio articolo aggiuntivo originario accennava espressamente alla necessità che a tutti i cittadini venga assicurata la disponibilità del reddito minimo necessario alla esistenza; ed anche su questo credo che ci sia la concorde adesione di tutte le parti di questa Assemblea. Non si può negare che il cittadino, prima di essere chiamato a corrispondere una quota parte della sua ricchezza allo Stato, per la soddisfazione dei bisogni pubblici, deve soddisfare i bisogni elementari di vita suoi propri e di coloro ai quali, per obbligo morale e giuridico, deve provvedere. Da ciò discende la necessità della esclusione dei redditi minimi dalla imposizione; minimi che lo Stato ha interesse a tenere sufficientemente elevati, per consentire il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, che contribuisce al miglioramento morale e fisico delle stesse ed in definitiva anche all’aumento della loro capacità produttiva.

Ovviamente, come norma di principio e di indirizzo, di per sé, rappresentava la via da percorrere per il legislatore italiano nella “riforma del diritto tributario” incentrata a criteri di progressività. Via che si è intrapresa con grandi difficoltà e che, con grandi sforzi dovuti allo scioglimento delle resistenze dei gruppi di interesse dei più abbienti, il legislatore italiano ha perseguito nel corso del tempo, con la successione di ritocchi normativi che sono culminati con la riforma tributaria degli anni ’70.

Se quindi il sistema tributario italiano doveva essere informato al principio della progressività delle aliquote, di per sé doveva essere un sistema che privilegiasse l’imposizione diretta e personale sui redditi a discapito di quella indiretta sui consumi.

Purtroppo, però, nel percorso di riforma del diritto tributario italiano si è inserito l’adeguamento della legislazione italiana alle direttive comunitarie europee, che hanno sensibilmente inciso nella determinazione di un modello tributario diverso da quello contenuto nella Costituzione repubblicana del 1948.

Una breve ricostruzione storica degli interventi di riforma tributaria successivi alla Costituzione, chiarirà le dinamiche del “vincolo esterno” indotto dalla CEE/CE/UE nella normazione della politica fiscale della Repubblica Italiana, che ha di fatto deviato dal dettato costituzionale.

Si passerà poi, nella seconda parte del documento, all’esposizione di un ipotetico piano di riforma tributario, che riporti nell’alveo dei principi costituzionali gli indirizzi di politica fiscale della Repubblica Italiana, evidenziando, altresì, le pre-condizioni “di sistema” necessarie per garantirne il buon esito.

 

2. PREMESSE STORICHE

 

a. Il sistema fiscale italiano prima della Costituzione.

Il sistema fiscale italiano alla fine della seconda guerra mondiale, come del resto quasi tutti gli altri sistemi fiscali nazionali dell’epoca, era rappresentato da un coacervo di imposte, tributi e tasse prelevate sia a livello locale che centrale, che colpivano patrimonio, reddito e consumi in maniera disorganica e iniqua, lasciando ampie praterie all’evasione e all’elusione fiscale.

Tale stato di cose, stratificatosi nel corso del tempo a causa della esigenza di “dover fare cassa”, era fondamentalmente dovuto alla concezione dell’epoca, che ignorava la moderna idea di “tassare per redistribuire ricchezza”, successivamente cristallizzata nella Costituzione repubblicana tramite il criterio della “progressività”.

b. La Riforma Vanoni.

Nell’ottobre del 1948 il Ministro delle Finanze Ezio Vanoni presentò il bilancio di previsione del proprio ministero. La politica fiscale si assunse un duplice compito:

  • incrementare le entrate per fornire al governo le risorse finanziarie necessarie a sostenere la politica di ricostruzione;
  • ripartire il carico tributario tra i contribuenti in base alla loro capacità contributiva e cioè secondo il principio di progressività delle imposte sancito dalla Costituzione.

Un suo famoso discorso del 1948 introdusse le linee guida cui sarebbe stata improntata la riforma tributaria che il Parlamento avrebbe varato nel 1951: «Ma find’ora deve essere detto che il fondamento della riorganizzazione del sistema tributario è quello segnato dalle norme costituzionali, che vogliono un ordinamento che realizzi la progressività nel sistema delle imposte».

Come detto nel paragrafo precedente, il sistema tributario italiano si caratterizzava per un eccesso di imposizione indiretta e reale, che favoriva l’evasione e l’ingiustizia fiscale. Il Ministro delle Finanze Vanoni cercò di contemperare la duplice esigenza di accrescere e perequare il gettito, distinguendo tra imposte che colpivano reddito e patrimonio (da incrementare) e imposte che colpivano i consumi necessari (da ridurre). Si trattava di una soluzione temporanea dettata dalla preoccupazione di non incidere sulle entrate dello Stato nella fase della ricostruzione materiale e del risanamento finanziario del paese. La vera riforma consisteva però nel passare gradualmente ad un’imposizione prevalentemente diretta e personale, e cioè più conforme al principio costituzionale della capacità contributiva.

Vanoni individuava il difetto strutturale del sistema tributario italiano nella mancanza di un rapporto di fiducia tra contribuenti e fisco.

La Riforma Vanoni reintroduceva l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi. Il fisco, da ostile nemico diventava l’autorità preposta dalla comunità a ripartire in modo equo le spese sostenute dallo Stato per garantire lo sviluppo della società civile.

E dunque, anche in virtù di quella fiducia verso il contribuente espressa nel “patto fiscale”, la Riforma Vanoni riuscì a ridurre sensibilmente le aliquote dell’imposta complementare, dell’imposta sulla ricchezza mobile, l’imposta di famiglia, l’IGE (imposta generale sulle entrate) e l’imposta di registro.

Secondo Vanoni, bisognava tenere conto dei vantaggi che i singoli traggono dalla partecipazione alla vita sociale organizzata in Stato. Vanoni si riferiva in particolare alle classi agiate, a coloro che maggiormente beneficiano dell’esistenza dello Stato. Senza lo Stato, o con uno Stato meno efficiente, i loro diritti alla proprietà, alla sicurezza, all’ordine pubblico sarebbero pregiudicati. Il loro stesso benessere materiale sarebbe pregiudicato. Con lo Stato quei diritti e quel benessere sono maggiormente tutelati. Da qui quell’obbligo morale verso la collettività che lo portò a sostenere: «chi possiede può giustificare il proprio possesso solamente se fa interamente il proprio dovere di solidarietà sociale rispetto al corpo sociale nel quale opera».

c. Il 1962 e la Commissione di studio sulla Riforma Tributaria.

Alla morte di Ezio Vanoni l’ordinamento tributario, se pur incamminato verso la via tracciata dalla Costituzione, era ancora molto lontano dall’incarnarne in maniera esatta e puntuale i principi.

Gli anni ’60 si caratterizzarono per l’intensa attività di studio dedicata alla riforma tributaria che di lì a pochi anni avrebbe dovuto dare un nuovo volto all’ordinamento tributario italiano. Fu questo il periodo nel quale due uomini, con idee e visioni diverse, si confrontarono e scontrarono nel dibattito relativo alla riforma tributaria: Cesare Cosciani e Bruno Visentini. Le “lame” tra i due, ad onor del vero, si erano già incrociate ai tempi della “Commissione Vanoni”nel 1948, e le rispettive relazioni presentate in quella commissione rappresentarono il preludio di quello che sarebbe stato il dibattito negli anni ’60. Cosciani era un uomo accademico, non era un politico in senso stretto, ma i suoi argomenti lasciavano chiaramente intendere che il suo orientamento fosse fortemente socialdemocratico.

Visentini era al contrario un politico, uomo di spicco del Partito Repubblicano Italiano, un liberale quindi.

Era il 1962 quando il Governo Fanfani istituì la “Commissione per lo studio della riforma tributaria” presieduta dall’allora Ministro delle Finanze Giuseppe Trabucchi, ma la cui direzione venne affidata al designato vicepresidente Cesare Cosciani e che vide tra i suoi componenti anche Bruno Visentini.

La Commissione produsse un’enorme mole di documenti e relazioni preparatorie sui diversi problemi della riforma; nel maggio del 1963 i lavori terminarono con un rapporto, redatto da Cosciani, che conteneva le proposte di una nuova struttura dell’intero sistema di imposizione.

La relazione completa venne pubblicata nel 1964, con il titolo di “Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria“.

Nel settembre del 1964 venne affidata a Cosciani la presidenza del “Comitato di studio per l’attuazione della riforma tributaria”, che in una prima fase dei lavori affrontò un programma concreto di riforma tributaria da attuare nell’arco di un quinquennio ed una relazione contenente le linee di riforma, approvata dal Parlamento nel giugno del 1965.

Nel febbraio del 1966 Cosciani preparò una bozza di progetto legislativo già completamente suddiviso in 243 articoli ed accompagnato da commenti ai singoli articoli.

Nel giugno del 1966 Cosciani si dimise dalla guida del Comitato non condividendo né il “metodo di lavorare né alcune scelte concrete”. Queste le motivazioni generiche da lui addotte che determinarono, di fatto, il sorpasso di Visentini e quindi di parte delle sue idee, nella traduzione di quella che sarebbe stata la riforma che, di lì a breve, avrebbe portato proprio il nome del “Repubblicano” Visentini.

Ma su cosa si giocò il contrasto fra i due? Pare scontato affermare che la “visione di Stato” di un liberale non può che essere diversa da quella di un socialista democratico. Tale visione ovviamente si ripercuote su quella che è la finanza pubblica. Su cosa deve finanziare, in che misura e soprattutto sull’individuazione di chi (ovvero quale strato della popolazione) deve maggiormente essere chiamato a contribuirvi.

Il diverso modo di intendere lo Stato, “minimo” e “silenzioso” per un liberale, “centrale” e “sociale” per un socialista democratico, determina, come è giusto che sia, un modo di concepire le imposte e il sistema impositivo geneticamente diverso.

d. La legge delega del 1971 sulla Riforma Tributaria.

Con la legge n. 825/1971 il Parlamento fornì al Governo la delega necessaria per realizzare la riforma che rappresentò il massimo tentativo di avvicinare il sistema fiscale al principio di capacità contributiva e di progressività sancito più di vent’anni prima dalla Costituzione, ma allo stesso tempo consentì l’adeguamento alle direttive 67/227/CEE dell’11 aprile 1967 e 67/228/CEE dell’11 aprile 1967, che imponevano agli Stati membri della CEE di iniziare a conformarsi alle regole del libero mercato (libera circolazione di persone, servizi, merci e capitali) sancite dal MEC nel 1958 e in parte codificate, appunto, nelle direttive in parola, che introducevano nell’ordinamento giuridico italiano il divieto di discriminazione fiscale tra i beni prodotti in ciascuno Stato membro e il principio di tassazione nel paese di destinazione, nonché il recepimento della disciplina sul “valore aggiunto”.

I decreti emanati dal governo per effetto della delega possono essere di fatto distinti in due gruppi fondamentali; un complesso di 19 decreti relativi alle imposte indirette, ai tributi locali, all’IVA, al contenzioso tributario e alla riorganizzazione dell’amministrazione finanziaria, entrati in vigore nel 1973 (insieme al Testo Unico sulle leggi doganali, approvato nello stesso anno, che abolendo i dazi doganali andava di fatto a sostituire, nel rispetto dei principi sanciti dal MEC, la normativa del 1940) e un altro insieme di 10 decreti relativi alle imposte dirette e alla materia di riscossione e di accertamento, entrati in vigore nel 1974.

Per effetto di tali decreti furono abrogate 40 imposte previgenti, modificate altre rimaste in vigore e furono introdotte le seguenti nuove imposte:

  • IRPEF (dpr 597/1973)

Imposta a carattere personale e progressivo applicata al reddito complessivo netto delle persone fisiche, comunque conseguito, comprendente tutti i redditi propri del soggetto, inclusi quelli altrui dei quali avesse la libera disponibilità.

La struttura iniziale dell’imposta era suddivisa in 32 scaglioni di reddito ed altrettante aliquote, che partivano dal 10% fino all’82%. Tale struttura, in realtà, fu subito ritoccata nel 1975 con la riduzione dell’ultima aliquota al 72%.

  • IRPEG (dpr 598/1973)

Imposta proporzionale sul reddito complessivo prodotto dalle persone giuridiche. Soggetti passivi erano tutti i soggetti diversi dalle persone fisiche, ad eccezione delle società di persone per le quali si applicava il “principio di trasparenza”, secondo cui i redditi delle società di persone erano trattati fiscalmente come se la società fosse una sorta di “schermo trasparente”, dunque non dotato di una propria autonomia; conseguentemente i risultati reddituali della società erano considerati fiscalmente dei soci e intesi come “redditi di partecipazione”. L’aliquota era fissata in generale al 25%, ma era ridotta al 12,5% per gli enti e le società finanziarie e al 10% per gli enti e le società a prevalente partecipazione pubblica: conseguentemente i soggetti passivi erano tutti i soggetti diversi dalle persone fisiche, ad eccezione delle società di persone per le quali si applicava il “principio di trasparenza”.

  • ILOR (dpr 599/1973)

Tributo di tipo reale, proporzionale, il cui presupposto era il possesso di redditi da capitale o comunque misti: redditi fondiari, di capitale di impresa e diversi realizzati nel territorio dello Stato.

Inclusi nell’ambito di applicazione dell’ILOR erano tutti i redditi, prodotti nel territorio dello Stato, assoggettabili a IRPEF ed IRPEG, anche nella circostanza in cui tali tributi non fossero stati applicati a causa di agevolazioni fiscali di vario tipo; soggetti passivi di imposta erano quindi tanto persone fisiche che giuridiche per i quali si realizzava il presupposto di cui sopra. Erano esclusi, invece, tutti i redditi di lavoro dipendente e assimilati, redditi derivanti dalla partecipazione in società di persone, redditi derivanti dalla partecipazione in società ed enti assoggettati a IRPEG, redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, redditi di lavoro autonomo continuativi o occasionali non assimilabili al reddito d’impresa, redditi delle imprese familiari imputati ai collaboratori familiari, i redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, le indennità di trasferta ed i rimborsi forfettari di spesa, percepiti da soggetti che svolgesser attività sportiva dilettantistica, redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali organizzate prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari a certe condizioni.

  • IVA (dpr 633/1972)

Imposta indiretta sui consumi, sia di beni che di servizi, attraverso l’imposizione del valore aggiunto nelle varie fasi produttive.

Introdotta con 2 diversi tipi di aliquote, ordinaria al 12% e ridotta al 6% per determinate tipologie di prodotti, colpiva in buona sostanza il consumatore finale del bene o del servizio.

  • INVIM (dpr 643/1972)

Era un tributo locale indiretto il cui presupposto era rappresentato dal trasferimento di un bene immobile all’interno del territorio dello Stato.

Erano soggetti passivi dell’imposta: l’alienante a titolo oneroso, l’acquirente a titolo gratuito, la società titolare della proprietà, della nuda proprietà o dell’enfiteusi, i contraenti di un atto di permuta relativa a immobili o il contraente che permutasse in cambio di altri beni immobili.

Una volta determinata la base imponibile occorreva calcolare l’imposta applicata su questa, data dalla somma degli importi ottenuti applicando, ad ognuno degli scaglioni in cui si considerava suddiviso l’incremento imponibile, la corrispondente aliquota compresa tra il 5% e 30%, stabilita a livello comunale entro certi limiti stabiliti dalla legge statale.

e. Il primo passo indietro: gli interventi del 1983 e le spalle voltate alla Costituzione dal legislatore.

Il 1983 fu l’anno della decisiva inversione di tendenza rispetto all’applicazione dei principi costituzionali al sistema tributario italiano. Si deve infatti notare che, nonostante le ingerenze delle direttive europee alla fine degli anni ’60, l’impianto normativo posto in essere dalla riforma introdotta dalla legge delega del 1971, almeno per quanto riguardava le imposte dirette sulle persone fisiche (IRPEF), era incentrato senza ombra di dubbio sulla equità e sulla redistribuzione della ricchezza attraverso lo strumento della progressività.

Il legislatore dei primi anni ’80 – che, si fa notare, aveva la stessa matrice culturale che pose in essere l’adesione della Repubblica Italiana allo SME nel 1979, il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro nel 1981, e avviò il processo di deindustrializzazione dell’impresa pubblica italiana (Presidenza IRI di Romano Prodi) – prendendo come scusa, da una parte, il fenomeno del “fiscal drag”, determinato dalla forte inflazione di natura esogena (crisi petrolifere), dall’altra, il favore normativo della riforma del 1971 nei confronti delle piccole e medie imprese, che avevano un carico fiscale inferiore rispetto alle imprese di grandi dimensioni, spinse per la riduzione della progressività dell’IRPEF riducendo da 32 a 9 gli scaglioni di reddito, innalzando l’aliquota più bassa dal 10% al 18% e riducendo dal 72% al 65% l’aliquota più alta.

f. Continua il declino: l’innalzamento delle aliquote IVA e gli interventi del 1989.

Durante tutti gli anni ’80 si assistette ad un progressivo quanto inesorabile aumento delle aliquote IVA, che passarono dal 12% del 1973 al 19% del 1988.

Anche le aliquote IRPEF subirono ulteriori modifiche peggiorative per il criterio della progressività, che ricordiamo esprime lo strumento con cui si concretizza la ridistribuzione della ricchezza.

Gli scaglioni IRPEF nel 1989 si ridussero a 7 (dai 9 del 1988), l’aliquota minima scese al 10% (risalirà al 18,5 % nel 1998) e l’aliquota massima si ridusse al 50%. L’effetto della volontà del legislatore di spostare la tassazione dalle imposte dirette e personali alle imposte indirette si fece evidente.

g. Gli interventi del Governo Amato: la vessazione del contribuente.

Gli anni ’90 si aprirono con una forte turbolenza politica che si rifletté sulla disorganicità degli interventi in materia fiscale.

Una manovra finanziaria da 100.000 miliardi di lire, la più importante dal dopoguerra, che stabiliva l’indeducibilità dell’ILOR dall’IRPEG (con conseguente aumento dell’aliquota formale sui profitti fino al 53,2%), l’istituzione di un’imposta sul patrimonio netto delle imprese, l’introduzione dell’ICI (in assenza peraltro di una contestuale  abolizione o riduzione della previgente imposta sui trasferimenti immobiliari) e la rivalutazione delle rendite catastali, l’eliminazione retroattiva degli sgravi IRPEF legati al recupero del fiscal drag, l’imposizione di un prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti bancari dei contribuenti nella notte tra giovedì 9 e venerdì 10 luglio 1992, legittimato ex-post con decreto d’urgenza dell’11 luglio ed infine l’istituzione della cosiddetta “Minimun Tax“, danno la portata dell’iniquità e dell’accanimento fiscale senza precedenti operato dal Governo Amato, vessatorio nei confronti dei contribuenti come mai prima, nella storia della Repubblica Italiana, nessun altro governo aveva osato.

Gli interventi operati in materia fiscale dal Governo Amato, difficile dire se in maniera voluta o meno, agevolarono sicuramente il contesto del cambiamento di fase affrontato dalla Repubblica Italiana in quel delicato periodo storico nel quale il Paese: vide sfilare il circo di “Mani Pulite”, pianse gli omicidi dei magistrati Falcone e Borsellino, subì la ratifica del Trattato di Maastricht.

Il governo politico di Giuliano Amato stava per cedere il passo al governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi, in un contesto nel quale l’opinione pubblica incominciava ad essere indotta a vedere l’esecutivo tecnico come una “manna dal cielo”. Un’anticipazione di ciò che sarebbe andato in scena 18 anni dopo col Governo Monti.

h. Gli interventi del Governo tecnico Ciampi: “Ce lo chiede l’Europa!”

Acclamato come il salvatore della Patria, il futuro Presidente della Repubblica Italiana, nonché ex governatore della Banca D’Italia, ricevette l’incarico di formare un esecutivo che si sarebbe caratterizzato per la sua natura prevalentemente tecnica e non politica.

In ambito fiscale, con Franco Gallo alla guida del Ministero delle Finanze, il Governo Ciampi si dedicò all’adeguamento del fisco italiano agli standard dettati dal Trattato di Maastricht.

Si varò pertanto il DECRETO-LEGGE 30 agosto 1993, n. 331, la cui epigrafe ne spiega i contenuti: Armonizzazione delle disposizioni in materia di imposte sugli oli minerali, sull’alcole, sulle bevande alcoliche, sui tabacchi lavorati e in materia di IVA con quelle recate da direttive CEE e modificazioni conseguenti a detta armonizzazione, nonché disposizioni concernenti la disciplina dei centri autorizzati di assistenza fiscale, le procedure dei rimborsi di imposta, l’esclusione dall’ILOR dei redditi di impresa fino all’ammontare corrispondente al contributo diretto lavorativo, l’istituzione per il 1993 di un’imposta erariale straordinaria su taluni beni ed altre disposizioni tributarie.

È doveroso segnalare l’introduzione degli “studi settore”, che inflissero un ennesimo colpo alla piccola e media impresa e ai lavoratori autonomi, già precedentemente colpiti dal disegno politico volto a spostare su di loro il carico fiscale gravante sulle grandi imprese, che con Maastricht avevano iniziato ad essere sempre più straniere o, per usare il termine corretto, multinazionali.

Il Trattato di Maastricht firmato dall’Italia il 7 febbraio del 1992, tra le altre cose, imponeva di rientrare in un rapporto tra il debito pubblico lordo e il PIL non superiore al 60%; dunque, come è facile comprendere, tutte le politiche fiscali seguite dai governi successivi avrebbero dovuto fare i conti con tale vincolo.

i. Gli interventi del Governo Berlusconi.

La breve vita del I Governo Berlusconi diede alla luce pochi interventi legislativi, tra cui si ricorda la legge n. 489/1994 che, al dichiarato fine di favorire la ripresa economica, introdusse un regime sostitutivo per le nuove iniziative produttive; tale regime prevedeva che alcune categorie di soggetti, che avessero iniziato un’attività in campi individuati dalla legge, potessero usufruire di un regime di imposta sostitutiva crescente dal primo anno di attività fino al terzo. La stessa legge prevedeva poi un premio di assunzione per i datori di lavoro che avessero incrementato la base occupazionale con assunzioni con contratto a tempo indeterminato, costituito da un credito di imposta pari al 25% dei redditi da lavoro dipendenti corrisposti ai nuovi assunti; era infine introdotta una norma concernente la detassazione del reddito d’impresa reinvestito (che prevedeva che fosse escluso dalla tassazione il 50% degli investimenti in beni strumentali effettuati in più rispetto alla media degli investimenti realizzati nei cinque periodi d’imposta precedenti).

Sempre la legge n. 489/1994 prevedeva poi di semplificare i rapporti tra contribuente e fisco agendo sulla soppressione di tutta una serie di adempimenti ritenuti superflui (come il repertorio annuale della clientela, gli elenchi dei clienti e fornitori collegati alla dichiarazione IVA) e sulla riduzione delle sanzioni per irregolarità formali.

Altra legge fu la n. 656/1994, che cercava di fatto di ridurre il numero di contenziosi in corso di importo non rilevante e di evitarne di nuovi, per effetto dell’introduzione dei primi istituti deflattivi del contenzioso quali l’accertamento con adesione, l’autotutela, la forfetizzazione e la conciliazione giudiziale; si trattò, di fatto, dei primi esperimenti di “condono fiscale”, ripresentati poi con frequenza negli anni successivi in forme e denominazioni diverse.

A rivelare invece la tendenza storica, in ambito fiscale, del Governo Berlusconi furono i principi enunciati nel libro bianco presentato dal Ministro Giulio Tremonti.

La riforma prospettata si muoveva su tre diverse direttrici fondamentali, cosi come individuate dall’autore:

  • federalismo fiscale (“dal centro alla periferia”), con l’obiettivo di ridurre gli sprechi attinenti al settore pubblico e spostare il gettito derivante dalle imposte erariali a favore di quelle locali (con una proporzione di 70% e 30%, in luogo di un rapporto, fino al 1994, pari all’80% ed al 20%, rispettivamente a favore dell’erario e degli enti locali);
  • tassazione ambientale e dei consumi (“dalle persone alle cose”), con lo scopo di redistribuire il carico fiscale dalla tassazione sulle persone a quella sui patrimoni e sui consumi (con un gettito prospettato del 54% sul reddito, di cui 31% derivante dall’Irpef, e del 46% su consumi e patrimoni, in luogo del vecchio rapporto pari al 60%, di cui il 35% riconducibile all’Irpef, e al 40%);
  • certezza e semplicità del diritto (“dal complesso al semplice”), con lo scopo di rendere più semplice e trasparente l’ordinamento tributario e migliorare i rapporti tra contribuente e fisco. In questo senso era prevista una riduzione dei tributi esistenti (da circa 100 imposte, di cui 14 tributi sugli immobili, a 8 imposte, di cui una sola relativa alle abitazioni); era altresì prevista l’emanazione di un unico codice tributario in luogo dei 3368 testi, fra leggi e decreti, vigenti in materia fiscale. Ulteriori obiettivi erano poi la riduzione dei contenziosi in corso e gli adempimenti dei contribuenti.

Per quanto riguarda la tassazione dei consumi l’Iva sarebbe stata armonizzata con l’Unione Europea, semplificata e ridisegnata nelle aliquote.

Per quanto concerne la tassazione dei redditi delle persone fisiche, L’Irpef sarebbe stata ridisegnata tanto nei meccanismi di determinazione della base imponibile quanto nella struttura delle aliquote, al fine di rimodulare la progressività, ridurre il numero di scaglioni e la dimensione delle aliquote. Le ipotesi al vaglio erano sostanzialmente quattro:

  1. struttura ad un’aliquota, con previsione di un’unica aliquota del 28%;
  2. struttura a due aliquote, con previsione di due aliquote del 27% (per i redditi fino a 50 milioni di lire) e del 40% (per i redditi superiori a 50 milioni di lire);
  3. struttura a tre aliquote, con previsione di tre aliquote del 20% (per i redditi fino a 15 milioni di lire), 30% (per i redditi compresi tra 15 e 50 milioni di lire) e del 40% (per i redditi sopra i 50 milioni di lire);
  4. struttura a tre aliquote alternative, con previsione, anche in questo caso, di tre aliquote del 20% (per i redditi fino a 20 milioni), 31% (per i redditi da 20 a 50 milioni) e del 45% (per i redditi sopra i 50 milioni).

Per ogni struttura erano poi previsti meccanismi di esenzione diversificati e solo nella prima ipotesi un contributo di solidarietà per i redditi più elevati.

Si evince, quindi, che anche il Governo Berlusconi decise di percorrere, come i suoi predecessori, la strada che allontanava dal dettato costituzionale in ambito fiscale.

j. Gli interventi del Governo Dini.

Il Governo Dini – concentrato su un’altra riforma richiesta a gran voce dalla Unione Europea e cioè quella pensionistica – in materia fiscale seguì, di fatto, la strada tracciata dal precedente esecutivo, essenzialmente incentrata sull’aumento delle entrate tributarie e la riduzione del debito pubblico; furono concesse le stesse agevolazioni fiscali per le nuove iniziative produttive, continuò il processo di semplificazione dei rapporti tra contribuente e fisco e si confermò la strada delle sanatorie per le violazioni minori.

L’aumento delle entrate tributarie, per effetto della legge n. 454/1995, venne peraltro perseguito con aumenti delle imposte ipotecaria e catastale, mediante un’imposta patrimoniale sulle imprese e l’aumento delle tasse governative.

k. La riforma del Governo Prodi.

La principale riforma del sistema tributario dopo la Riforma Visentini venne avviata con il governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi (Ministro delle Finanze Vincenzo Visco), insediatosi nel 1996; gli obiettivi prioritari del governo rimasero in primo luogo la riduzione dei livelli del debito pubblico italiano e la rincorsa verso il rispetto degli altri parametri previsti dal Trattato di Maastricht.

Il primo testo rilevante fu la legge n. 662/1996, collegata alla finanziaria per il 1997, la quale accordò al governo una serie di deleghe.

In primo luogo fu prevista l’istituzione di un’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e la contestuale abrogazione dell’Ilor per effetto del d.lgs. n. 446/1997.

Altra importante area di intervento riguardò il riordino dell’Irpeg per effetto l’introduzione della Dual Income Tax (Dit).

In terzo luogo fu ripensato il trattamento fiscale dei redditi di lavoro dipendente, capitale e alcune plusvalenze per effetto del d.lgs. n. 461/1997.

Fu quindi modificata, per effetto del d.lgs. n. 358/1997, la disciplina delle operazioni straordinarie.

Quinta area di intervento riguardò, per effetto del d.lgs. n. 467/1997, la disciplina del credito di imposta e l’imposta sostitutiva della maggiorazione del conguaglio.

Altre norme furono poi introdotte con lo scopo di riordinare la disciplina generale IVA, la finanza locale, revisionare l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale, ridurre gli adempimenti formali per il contribuente, revisionare la disciplina degli enti non commerciali (d.lgs. n. 460/1997) ed infine riformare il sistema sanzionatorio amministrativo e le fasi di accertamento e riscossione.

L’introduzione dell’IRAP andava a sostituire l’Ilor e l’aliquota impositiva passò dal 16,2% al 4,25% (su una base imponibile praticamente invariata); tuttavia la scelta di rendere indeducibili gli interessi passivi ai fini della determinazione della base imponibile Irap era un chiaro incentivo ad aumentare il capitale proprio a scapito del capitale di credito.

Questa considerazione non deve passare in secondo piano, in quanto le imprese più penalizzate da questa scelta legislativa risultarono, ancora una volta, quelle di medie e piccole dimensioni, che ovviamente non ricorrevano al capitale proprio, ma a quello creditizio.

Altra novità della Riforma Visco fu l’introduzione della DIT (Dual Income Tax) che oltre a inaugurare l’orrenda moda di anglofonizzare le imposte, penalizzava anch’essa le piccole e medie imprese.

La Riforma Visco risultò essere il frutto di un acceso dibattito che si sviluppò in Italia verso la fine anni ’80, quando ormai la narrazione imposta dalla classe dirigente dell’epoca cercava pretesti per criticare la riforma degli anni ’70.

Tale narrazione puntava il dito contro presunti limiti e problematiche che, si assumeva, dovevano essere per forza di cose superate introducendo un sistema tributario moderno e sempre più internazionalizzato; in particolare, come già detto, erano in discussione l’accentuata progressività dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e le problematiche, solo in parte corrette nei decenni successivi, connesse alla doppia imposizione degli utili societari e all’accentuato fiscal drag. Altri temi caldi erano poi le inefficienze e la bassa autonomia impositiva che caratterizzavano le autonomie locali, nonché la necessità di riformare l’azione dell’amministrazione finanziaria e in generale i rapporti tra contribuenti e fisco.

In realtà il sistema tributario delineato con la Riforma Visentini entrò definitivamente in crisi per effetto della legge finanziaria varata nel 1993 dal Governo Amato il quale, a fronte dell’aumento esponenziale dei livelli di debito pubblico e del conseguente paventato rischio default del Paese, oggetto di propaganda risultata molto efficace, introdusse tutta quella serie di misure volte ad aumentare il gettito e cercare di ridurre i livelli di indebitamento, con l’effetto però di aver creato una spirale di accanimento fiscale che ha portato alla realizzazione di avanzi primari, ma paradossalmente senza ridurre, bensì aumentando, l’indebitamento pubblico.

L’effetto ottenuto dal Governo Amato fu quello di rendere necessaria negli anni successivi una profonda riforma del sistema tributario vigente, già fortemente provato da importanti problematiche, e questa riforma, in peius, arrivò con il primo Governo Prodi.

Con la Legge 29 novembre 1997, n. 410, di conversione del decreto-legge 29 settembre 1997, n. 328, il Governo Prodi aumentò l’aliquota IVA dal 19% al 20%.

L’IRPEF subì altre modifiche che portarono gli scaglioni a 5, con l’aliquota più bassa che salì al 18% e l’aliquota più alta che scese al 45,5%. Continuando ad avallare le richieste provenienti da Bruxelles relative all’adeguamento agli standard dell’UE e al risanamento dei conti pubblici, in previsione dell’ingresso dell’Italia nell’Euro, il Governo Prodi proseguì inesorabile nel tradimento dei principi costituzionali in ambito fiscale.

l. Gli interventi del Governo D’Alema.

I Governi D’Alema seguirono sostanzialmente la strada tracciata dalla Riforma Visco, con tutta una serie di interventi volti al tentativo di ammodernare il sistema tributario (come la generalizzazione del sistema di invio telematico delle dichiarazioni fiscali).

Per effetto del d. lgs. n. 74/2000 fu ridisegnato il sistema sanzionatorio.

Con la legge delega n. 377/1998 vennero invece poste le basi per la riforma del sistema della riscossione, che fu in effetti portata a termine dal Governo Berlusconi II-III e dal Governo Prodi II e che vide l’accentramento dei servizi di riscossione tributi nelle mani di Equitalia SpA.

m. Le riforme del Governo Berlusconi II e Berlusconi III.

Il Governo Berlusconi II, insediatosi nel 2001, varò una nuova riforma del sistema dei tributi italiano sostituendo molte disposizioni che erano entrate in vigore solo qualche tempo prima: fu la c.d. Riforma Tremonti.

La legge principale della riforma fu la n. 383/2001 (c.d. “Manovra dei cento giorni”), seguita da una serie di testi normativi quali:

– D.l. 350/2001 (convertito in legge n. 409/2001) in materia di semplificazione degli adempimenti su dichiarazioni e versamento delle imposte;

– legge n. 448/2001 (legge finanziaria per il 2002) in materia di abrogazione dell’Invim, modifiche alle competenze delle commissioni tributarie, nuove misure riferite alle detrazioni dei familiari a carico e ampliamento dell’IVA agevolata;

– legge n. 289/2002 (legge finanziaria per il 2003) che ha ridisegnato il meccanismo impositivo dell’IRPEF modificando il sistema delle deduzioni, detrazioni ed aliquote ed ha introdotto nuovi strumenti deflattivi del contenzioso;

– legge delega n. 80/2003 che rappresentava la delega fiscale mediante la quale il Parlamento conferiva il potere al governo di emanare tutta una serie di decreti legislativi volti a riformare il sistema tributario italiano.

I principali obiettivi della riforma erano:

  • perseguimento della neutralità del sistema impositivo mediante eliminazione della Dit, graduale soppressione dell’Irap e revisione delle norme sulla “thin capitalization“;
  • abbassamento della pressione fiscale con riduzione dell’aliquota ordinaria dell’imposta sulle società al 33%;
  • ammodernamento del sistema tributario, anche rispetto al processo di integrazione europeo mediante sostituzione dell’IRPEG e dell’IRPEF, la revisione del sistema di tassazione dei gruppi societari per effetto dell’introduzione di un regime opzionale in base al principio del consolidato fiscale e l’introduzione del regime della Partecipation Exemption (PEX);
  • emersione dell’economia sommersa e delle attività finanziaria esportate o detenute all’estero (c.d. scudo fiscale);
  • semplificazione degli adempimenti per il contribuente in materia di dichiarazione e versamento delle imposte;
  • soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni.

La legge delega 80/2003 fu attuata soltanto in parte; infatti solo le disposizioni in merito all’istituzione dell’Ires hanno trovato piena applicazione (e quindi l’Ires ha sostituito l’Irpeg a partire dal 2004), mentre tutte le altre no.

In particolare:

  • l’Ire non è mai stata sostituita alla previgente Irpef; tuttavia è stata realizzata una parziale riforma di quest’ultima per effetto della legge n. 289/2002 e della legge n. 311/2004;
  • l’Imposta sui servizi non è mai stata istituita;
  • la Dit è stata abrogata ma l’Irap non è mai stata soppressa, anche se importanti modifiche (precedentemente rilevate) ne hanno modificato nei successivi anni la disciplina istitutiva;
  • il codice tributario unico non fu mai introdotto.

Ciò che invece va evidenziato è l’introduzione, per effetto della legge delega n. 80/2003 e il conseguente d.lgs. n. 344/2003, di un regime opzionale di tassazione dei gruppi, in base al cosiddetto principio del consolidato fiscale.

Il consolidato fiscale nazionale rappresenta un istituto opzionale mediante il quale le società facenti parte di uno stesso gruppo possono effettuare la somma algebrica delle proprie basi imponibili, autonomamente determinate, dando quindi luogo ad una compensazione tra gli utili e le perdite a livello di gruppo.

Anche questa, ovviamente, deve ritenersi una norma di favore per le grandi imprese, della quale le piccole o le medie, proprio per la loro dimensione, non si possono avvalere.

n. La riforma del Governo Prodi II.

I principali testi normativi concernenti la politica fiscale attuata dal governo tra il 2006 e il 2008 sono rinvenibili, da un lato, nel Documento di Programmazione Economico Finanziaria ex d.l. n. 223/2006 e, dall’altro, nella legge n. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007).

Nell’ambito dell’imposizione diretta e nello specifico dell’Irpef, importanti modifiche sono state rivolte alla struttura delle deduzioni e delle detrazioni e a quello delle aliquote.

In questo senso è stata innanzitutto modificata la disciplina dell’addizionale comunale Irpef; la disciplina istitutiva, introdotta per effetto del d.lgs. n 360/1998, e poi successivamente modificata con legge n. 133/1999, legge n. 488/1999 e legge n. 342/2000, prevedeva che l’addizionale del tributo fosse articolata in due aliquote distinte (in entrambi i casi la riscossione del tributo era operata materialmente dallo Stato e poi ripartita tra i vari enti locali): da un lato un’aliquota di compartecipazione dell’addizionale Irpef analoga per tutti i comuni e fissata dal Ministero delle Finanze e, dall’altra, un’aliquota opzionale e variabile decisa di volta in volta dal Comune. Proprio questa seconda componente, la quale nel corso degli anni ha incrementato la propria importanza in termini di gettito erariale, ha subito le principali modifiche circa i seguenti aspetti:

  • l’addizionale Irpef opzionale non poteva eccedere fino al 2006 il tetto massimo dello 0,5% e comunque l’incremento annuo non poteva essere superiore allo 0,2%; a partire dal 2007 è stato aumentato il tetto massimo dallo 0,5% allo 0,8%;
  • sono state cambiate le modalità di versamento del tributo; in particolare è stato introdotto un versamento in acconto del 30% calcolato con la nuova aliquota applicabile ma sulla base imponibile dell’anno precedente.

Le aliquote IRPEF sono state ritoccate come segue:

  • 23% per i redditi fino a 15.000 euro;
  • 27% da 15.001 a 28.000 euro;
  • 38% da 28.001 a 55.000 euro;
  • 41% da 55.001 a 75.000 euro;
  • 43% oltre i 75.000 euro.

Tale impostazione evidenzia in maniera inequivocabile l’ennesima riduzione della progressività dell’imposta personale sul reddito, nel cui ambito l’aliquota minima è salita al 23% e l’aliquota massima è scesa al 43% riferita, tra l’altro, ad uno scaglione di reddito che si può definire medio.

La legge finanziaria per il 2007 ha poi modificato la disciplina di altre imposte come l’Irap, l’ICI e tutta una serie di tributi minori quali:

  • l’imposta di scopo per il finanziamento di opere pubbliche;
  • è stata modificata la disciplina sulla tassa sulle successioni e le donazioni reintroducendole nell’ordinamento;
  • è stata modificata la disciplina delle tasse automobilistiche (c.d. “bollo auto”) sancendone la natura di imposta regionale. Il bollo auto applicato a tutti i veicoli iscritti al Pubblico Registro Automobilistico (PRA) e a tutta una serie di altri veicoli era dovuto dai proprietari, gli usufruttuari o gli intestatari della carta di circolazione del veicolo. La legge finanziaria per il 2007 ha aumentato la tariffa base in ragione della quota di emissioni di ossido di carbonio del motore utilizzato, accogliendo quindi le nuove convenzioni europee sulle emissioni inquinanti.

La legge finanziaria per il 2008 (legge n. 244/2007) si segnala invece per la riduzione della aliquota IRES, che è passata dal 33% al 27,5%, e per l’allargamento della base imponibile per effetto dell’abrogazione delle norme sulla Thin Capitalization e sul pro–rata patrimoniale, e della contestuale modifica alla disciplina della deducibilità degli interessi passivi.

o. Gli interventi del Governo Berlusconi IV.

Le turbolenze finanziarie scatenate dalla crisi USA di fine 2008, hanno fatto sentire i propri effetti anche in Italia, influenzando la politica fiscale del Governo Berlusconi, i cui principali interventi possono essere riassunti da un lato nella detassazione parziale del lavoro straordinario e nelle misure sperimentali tese all’incremento della produttività del lavoro, dall’altro nell’abolizione dell’ICI per l’abitazione principale.

Altri interventi avuti con legge n. 133/2008 hanno riguardato l’istituzione di un’addizionale IRES (c.d. “Robin Hood Tax”) inizialmente pari al 5,5% su alcune tipologie di aziende, una modifica alla disciplina della deducibilità degli interessi passivi per gli intermediari finanziari, un aumento del prelievo fiscale sulle cooperative e i fondi comuni di investimento ed infine la tassazione delle stock option.

Invece con il d.l. n. 185/2008 (convertito in legge n. 2/2009) si è adottata una serie di agevolazioni fiscali verso famiglie e imprese, per cercare di tamponare la crisi economica.

La legge n. 42/2009, c.d. legge delega sull’attuazione del federalismo fiscale, è stata il primo vero intervento in materia del legislatore dopo la riforma del titolo V della Costituzione, conclusasi ben 8 anni prima. L’obiettivo era quindi quello di avviare un processo normativo destinato a organizzare il complesso di principi in materia di attuazione del federalismo fiscale e di coordinamento tra la finanza statale e locale, in linea con i criteri costituzionali fissati dall’art. 119. In realtà, dopo l’emanazione della legge delega di attuazione del federalismo fiscale, il completamento della riforma è ancora ben lungi – possiamo dire fortunatamente – dall’essere concluso.

Con il d.l. n. 78/2010, convertito in legge n. 102/2009, sono stati previsti il c.d. “Scudo fiscale” e il complesso di incentivi fiscali, che vanno sotto il nome di “Tremonti ter”, indirizzati alle imprese che avessero posto in essere investimenti a determinate condizioni, con lo scopo di favorire processi di ricapitalizzazione e di rinnovamento, escludendo dall’ambito di applicazione della norma gli esercenti arti e professioni e gli enti non commerciali non titolari di reddito di impresa.

L’agevolazione prevista dal decreto si sostanziava in una riduzione del 50% dalla base imponibile Ires del valore degli investimenti effettuati dall’impresa tra il 1 luglio 2009 ed il 30 giugno 2010, relativi all’acquisto o la realizzazione di beni strumentali.

I successivi interventi sono stati:

– il d.lgs. n. 18/2010 contenente il recepimento di alcune direttive comunitarie in materia di IVA in tema di territorialità delle operazioni;

– il d.l. n. 225/2010 (“Decreto mille proroghe”) convertito in legge n. 10/2011 che ha introdotto novità in merito alla disciplina del trasferimento di immobili e ai fondi comuni di investimento immobiliare;

– il d.l. n. 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”) che ha introdotto nuovi incentivi fiscali a favore della ricerca scientifica, per effetto del quale è stato istituito, per gli anni 2011 e 2012, un credito di imposta a favore delle imprese finanziatrici di progetti di ricerca in Università o comunque in enti pubblici di ricerca. Altri interventi contenuti nel decreto hanno poi riguardato modifiche alla fase di accertamento del reddito di impresa, l’elevazione dei limiti per la tenuta della contabilità semplificata, l’abolizione per il lavoratore dipendente dell’obbligo di comunicare al datore di lavoro la documentazione relativa alle deduzioni e detrazioni ed infine bonus fiscali per le ristrutturazioni;

– il d.l. 98/2011 (convertito con modificazioni con legge n. 111/2011, c.d. “manovra finanziaria”) è intervenuto con lo scopo di armonizzare la relativa disciplina italiana con quella dei principali paesi europei, che ha di fatto modificato il trattamento delle perdite fiscali delle società di capitali e le imprese assoggettate all’Ires. Tale modifica ha agevolato, ancora una volta, le grandi imprese rispetto alle piccole e medie;

– con il decreto n. 138/2011, c.d. “Manovra di ferragosto”, sono state approvate una serie di disposizioni in ambito fiscale e in altri settori volti che si riportano di seguito:

  • norme tese ad ampliare la potestà impositiva delle regioni;
  • modifiche all’attività di controllo ed accertamento attinenti agli “Studi di Settore”, alle liste selettive;
  • partecipazione dei Comuni alla lotta contro l’evasione;
  • inasprimento addizionali regionali IRPEF;
  • istituzione del “contributo di solidarietà”;
  • riduzione dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale del 5% per il 2012 e del 20% dal 2013;
  • norme sulla lotta la riciclaggio e relativa riduzione all’utilizzo del contante per importi inferiori a 2.500 €;
  • nuove norme in tema di tassazione di rendite finanziarie;
  • estensione della imposizione della “Robin Hood Tax”.

Nel complesso può dirsi che la crisi finanziaria Usa del 2008 da una parte, e il progressivo innalzamento dello spread sui titoli pubblici italiani rispetto ai Bund tedeschi dall’altra, unitamente alle richieste sempre più pressanti e invasive da parte di UE e BCE, hanno dettato un’agenda confusa e inefficace al Governo Berlusconi IV, che ha fallito nel dominare la scena politica italiana ed è capitolato nel novembre del 2011, facendo fare un ingresso trionfale all’esecutivo tecnico di Mario Monti, che nel frattempo era stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Il 17/09/2011 l’aliquota ordinaria dell’IVA è salita dal 20% al 21%.

p. Gli interventi del Governo tecnico Monti.

Gli atti normativi in materia fiscale posti in essere dal Governo Monti sono i seguenti:

– d.l. n. 201/2011, c.d. “Decreto Salva Italia” (convertito in legge n. 220/2011);

– d.l. n. 216/2011, c.d. “Decreto Milleproroghe 2011”;

– d.l. n. 1/2012, c.d. “Decreto Crescitalia” (convertito in legge n. 27/2012);

– d.l. n. 5/2012, c.d. “Decreto semplificazioni” (convertito in legge n. 5/2012);

– d.l. n. 16/2012, c.d. “Decreto fiscale” (convertito in legge n. 44/2012);

– delega fiscale approvata dal Cdm il 16 aprile 2012;

– d.l. n. 83/2012, c.d. “Decreto Sviluppo” (legge n. 134/2012);

– d.l. n. 95/2012, c.d. “Decreto sulla Spending Review 2”.

Il senso di tutte queste norme è però stato anticipato nero su bianco con “l’atto d’indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale per gli anni 2012/2014″, nel quale è possibile rintracciare tra le priorità politiche:

consolidare il percorso di risanamento finanziario; supportare la ricognizione del patrimonio immobiliare delle Pubbliche Amministrazioni;

 – continuare a operare secondo la logica di utilizzo prudente della leva fiscale, per ristabilire condizioni di crescita più robuste nel medio-lungo termine e contribuire al rilancio della produttività e della crescita economica; completare l’attuazione della legge delega in materia di federalismo fiscale;

 – rafforzare ulteriormente la lotta all’evasione e all’elusione fiscale e al gioco illecito; migliorare il livello di trasparenza fiscale e di scambio di informazioni tra Stati; potenziare l’attività di riscossione; mantenere una politica rigorosa delle concessioni di giochi;

 – contribuire a rafforzare il governo economico dell’Unione Europea e all’adozione delle necessarie riforme strutturali.

Il Dipartimento delle Finanze opererà per dare attuazione a ciascuna delle priorità così individuate. In particolare, darà il proprio contributo per il rafforzamento del governo economico dell’Unione Europea, l’adozione di riforme strutturali, inclusa quella fiscale, la pianificazione e la verifica delle attività di impulso al rafforzamento della lotta all’evasione e all’elusione fiscale.

Nell’ambito del processo di attuazione della riforma fiscale, saranno predisposti schemi di provvedimenti normativi diretti al riequilibrio del sistema impositivo, anche relativamente alla tassazione dei redditi finanziari, nonché alla riduzione degli effetti distorsivi delle scelte degli operatori economici ed al graduale spostamento dell’asse del prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette“.

Sotto il profilo del sistema dei tributi, le intenzioni del Governo Monti sono apparse quelle di strutturare un sistema simile a quello rinvenibile nel periodo post unificazione caratterizzato, come si è detto, da una prevalenza dell’imposizione indiretta su quella diretta ed un’ampia autonomia impositiva a livello comunale.

q. Gli interventi del Governo Letta & Renzi.

Sulla scia tracciata dal Governo Monti, i Governi Letta prima e Renzi dopo, hanno proseguito e, al momento in cui si scrive, continuano a proseguire nel perseguimento delle politiche di spostamento dell’asse del prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette e nell’adozione delle riforme strutturali richieste dalla Unione Europea, in aperto contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

Il 01/10/2013 l’aliquota ordinaria dell’IVA è salita dal 21% al 22%.

 

3. BREVI CONSIDERAZIONI SULL’EVOLUZIONE DEL FISCO IN ITALIA

 

Quasi settanta anni ci separano dal discorso dell’On. Scoca in Assemblea Costituente e le sue parole, oggi più che mai, sembrano perdute nel tempo, un tempo lontano nel quale libertà, democrazia e giustizia sociale venivano cristallizzati nella Norma delle norme dell’ordinamento giuridico italiano.

L’art 53 della Costituzione della Repubblica Italiana è stato coltivato fino agli anni settanta e poi calpestato da quella classe dirigente che ha scelto di farci vivere l’incubo della realizzazione dell’Unione Europea.

Il sistema illuminato dalla Costituzione ha privilegiato l’imposizione diretta e personale sui redditi a quella indiretta sui consumi e ha usato lo strumento della progressività per ridistribuire la ricchezza, adottando un sistema a 32 aliquote con la più bassa al 10% e la più alta al 72%.

Il sistema voluto dalla Unione Europea e perseguito indistintamente da tutti i governi che si sono succeduti dal 1980 in poi, ha distrutto lo strumento di progressività delle imposte dirette e personali sul reddito e ha fatto lievitare l’imposizione indiretta sui consumi, portandola ai livelli improponibili che oggi conosciamo.

La storia della riforme tributarie italiane, ad oggi, si è scritta tradendo la Costituzione e il suo testamento di libertà, democrazia e giustizia sociale.

Compito dell’ARS-FSI e di chiunque abbia a cuore la Costituzione repubblicana, è quello di invertire il corso degli eventi e tornare a rendere norma viva il dettato costituzionale.

 

PARTE SECONDA: LE PROPOSTE

 

1. LE PRE-CONDIZIONI NECESSARIE

 

Prima di affrontare i veri e propri temi della riforma tributaria è opportuno chiarire brevemente e senza scendere nello specifico, quale sistema e quali condizioni si debbano porre in essere a monte degli interventi di natura fiscale.

È infatti da evidenziare che nel corso del tempo che ci separa dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, molti ambiti delle istituzioni repubblicane sono stati riformati e il quadro che ne esce fuori è quello di un ordinamento giuridico completamente stravolto.

Di seguito si elencano le più importanti pre-condizioni di sistema da porre in essere affinché l’eventuale riforma tributaria, ispirata ai principi costituzionali, possa operare in maniera organica.

a. Recesso dalla Unione Europea.

Condizione principale è il recesso dalla Unione Europea, le cui norme contenute nei Trattati, in parte recepite dall’ordinamento italiano, si pongono in aperto contrasto con i principi costituzionali.

Recedere dall’Unione Europea significa, per la Repubblica Italiana, riconquistare la propria sovranità nazionale, che è innanzitutto politica.

b. Pieno recupero in capo al Governo della Repubblica Italiana delle leva monetaria.

Per il buon governo dei conti pubblici la leva fiscale deve essere impugnata assieme a quella monetaria, ed è per questo motivo che dovrà essere inequivocabilmente abbandonata l’ideologia che vuole l’indipendenza della politica monetaria dall’esecutivo.

Il governo politico dovrà ritrovare la piena capacità di poter emettere moneta attraverso la Banca D’Italia e dovrà ripristinarsi lo strumento dello scoperto di c/c intestato al Ministero del Tesoro presso la banca centrale italiana.

c. Ripristino del sistema di repressione finanziaria.

Dovrà ripristinarsi il sistema di repressione finanziaria, per la cui definizione dei principi si rimanda alla lettura dell’omonimo documento approvato dall’Assemblea dell’ARS – Associazione Riconquistare la Sovranità nel giugno 2013.

d. Politiche di indirizzo del risparmio verso i titoli di Stato e ripristino e inasprimento dei vincoli alla circolazione di capitali.

Una politica fiscale volta alla redistribuzione della ricchezza e un mercato finanziario chiuso alle fughe di capitali e alle speculazioni, dovranno essere accolti da politiche di indirizzo del risparmio verso i titoli di Stato.

e. Abbandono dell’ideologia della “banca universale” e ritorno al sistema bancario nazionale e prevalentemente pubblico.

Un sistema bancario al servizio della collettività nazionale, che finanzi la crescita e lo sviluppo in maniera equilibrata, deve per forza di cose tornare ad essere prevalentemente pubblico ed operare solo in ambito nazionale.

Il progetto fallimentare della banca universale deve, per la seconda – e speriamo ultima – volta nella storia, essere abbandonato. L’esercizio del credito deve essere separato da tutte le altre attività finanziarie, che in un sistema di repressione della rendita finanziaria saranno ovviamente anche ridimensionate.

f. Ripristino di misure di difesa commerciale e politica dei dazi per un’economia chiusa alle invasioni commerciali e aperta agli scambi bilaterali.

Politica industriale, politica dei prezzi, prelievo fiscale, benessere sociale e lavorativo sono condizioni interconnesse fra di loro. È per questo motivo che dovrà essere recuperato lo strumento difensivo offerto dai dazi commerciali per tutelare i prodotti nazionali in concorrenza con i prodotti stranieri nei settori strategici nei quali apparirà necessario.

g. Ritorno al sistema industriale nazionale e alle partecipazioni statali.

Il circolo virtuoso della redistribuzione della ricchezza attraverso la creazione di ricchezza è un sistema aperto nella misura in cui permette alle esportazioni di beni e servizi, prodotti nel territorio nazionale, di finanziare le importazioni di beni e servizi necessari al ciclo produttivo nazionale.

Un sistema economico bilanciato e un sistema industriale nazionale sono fondamentali per un equo prelievo fiscale.

Gli squilibri industriali creati dalla globalizzazione hanno un effetto distorsivo che si ripercuote inevitabilmente sul prelievo fiscale, con la conseguenza che la ricchezza non viene distribuita e l’imposizione fiscale ricade sui consumi e, quindi, sulle fasce più deboli della popolazione.

Una riforma tributaria efficace dovrà essere quindi accompagnata da una lungimirante politica industriale a trazione prevalentemente pubblica e, quindi, da un ritorno al sistema delle partecipazioni statali.

 

2. GLI INTERVENTI “UNA TANTUM”

 

Gli interventi successivi alla riforma degli anni ’70 hanno prodotto, come si è visto nella parte prima del presente documento, un sistema tributario sempre più iniquo.

Tale situazione, unitamente all’apertura da parte del legislatore al credito al consumo e il facile ricorso da parte delle piccole e medie imprese al credito bancario – indotto dalla libera circolazione dei capitali (una delle 4 libertà a fondamento della Unione Europea), amplificata a dismisura dagli effetti del “cambio fisso” introdotto con l’Euro – sono stati determinanti nel creare una situazione di indebitamento privato diffuso.

Larghi strati della popolazione italiana, in qualità di cittadini o di imprese, sono fortemente indebitati principalmente nei confronti di due categorie di soggetti: il sistema bancario e il fisco.

Posto che non è questo il luogo ove svolgere analisi e proposte in merito alle soluzioni da adottare per rimediare al problema del patologico indebitamento nei confronti del sistema bancario, in questa sede potrà invece certamente trovare spazio una proposta per risolvere il problema dell’indebitamento nei confronti dell’erario.

Tale proposta viene articolata nei tre punti che seguono.

a. Il “condono riconciliativo” per tutti i debiti verso il fisco.

Dovrà essere adottato da parte dello Stato, come misura prevista una tantum e quale riconoscimento delle misure di iniquità fiscale sino ad oggi adottate, un condono tombale con rinuncia all’arretrato dei crediti vantati nei confronti dei contribuenti per qualsiasi titolo o ragione.

b. Il credito d’imposta per i contribuenti diligenti.

Dovrà essere inoltre istituito un credito di imposta, temporaneo e ben determinato nella misura, a favore di tutti i contribuenti che, nonostante l’iniquità del sistema tributario, abbiano onorato diligentemente e con grande sacrificio tutti gli impegni fiscali.

Tale misura appare doverosa nella misura in cui, nel condonare somme a chi è debitore nei confronti del fisco, non si voglia fare un torto a chi debitore, per suo merito e sacrificio, non lo è diventato.

c. L’emissione straordinaria di titoli del debito pubblico denominati “Risorgimento italiano” a copertura delle spese correnti durante il periodo del credito d’imposta.

Il finanziamento delle spese pubbliche correnti durante il periodo del credito di imposta, potrà essere generato ricorrendo ad un’emissione straordinaria di titoli del debito pubblico.

Per la fase storica in cui si collocheranno e per i motivi alla base della loro emissione potranno senz’altro essere denominati “Risorgimento Italiano” e, in quest’ottica, potranno sicuramente essere in parte sottoscritti da coloro che riceveranno i benefici derivanti dal suddetto credito d’imposta.

 

3. LA RIFORMA TRIBUTARIA

 

a. Le basi del sistema: equità e progressività.

Un sistema tributario moderno e ispirato ai principi costituzionali di equità e redistribuzione della ricchezza, dovrà essere fondato su un sistema di imposte dirette, personali e progressive.

Dovrà quindi mettere in primo piano, fra le sue caratteristiche, la capacità contributiva e la progressività.

La progressività, è bene ribadirlo, è lo strumento attraverso il quale con il prelievo fiscale si opera la redistribuzione della ricchezza all’interno della comunità-Stato. E deve essere questo l’unico principio guida che il futuro legislatore tributario dovrà seguire nel delineare il nuovo quadro normativo in materia fiscale.

b. Centralizzazione di tutte le imposte in capo allo Stato come Ente Impositore Esclusivo.

Il sistema tributario, al fine di evitare pericolose sovrapposizioni impositive e per un prelievo fiscale più efficace, dovrà tornare ad essere centralizzato a livello statale in via esclusiva.

Agli Enti Locali, nel rispetto delle autonomie costituzionalmente garantite, verrà revocata la capacità impositiva.

La revoca della capacità impositiva non influirà negativamente sulle entrate degli Enti Locali, in quanto verranno potenziati e migliorati i trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per garantirne il corretto e funzionale esercizio.

c. Le imposte dirette.

Le imposte dirette, come detto, dovranno rappresentare il fulcro del sistema tributario e saranno di due tipi: quelle sulle persone fisiche e quelle sulle imprese.

– Imposte sulle persone fisiche.

L’imposta sulle persone fisiche dovrà ricalcare l’imposta delineata dalla riforma del 1971 che si è caratterizzata per una forte progressività dovuta ai 32 scaglioni di reddito e per aliquote molto basse riferite a redditi minimi (10%) e molto alte riferite a redditi considerevoli (72%).

– Imposte sulle imprese.

L’imposta sulle imprese, a differenza della riforma del 1971 che la vedeva come imposta proporzionale, dovrà essere anch’essa improntata a criteri di progressività.

Dovranno essere previste esenzioni per le riserve destinate ad investimenti, che saranno regolamentate con i dovuti accorgimenti al fine di evitare elusioni di imposta.

Componenti della base imponibile saranno gli utili di esercizio. Verrà quindi abolita l’IRAP la cui determinazione esula dall’effettivo conto economico.

Abolizione del sistema degli acconti.

Dovrà essere abolito l’assurdo sistema degli acconti sulle imposte. Uno Stato con piena capacità di sovranità monetaria non ha bisogno di ricorrere al vessatorio sistema degli acconti sulle imposte future per far fronte ai propri impegni di spesa o ai flussi di cassa.

Abolizione degli “Studi di Settore”.

Dovrà altresì essere abolito l’odioso sistema degli “Studi di Settore”. Per recuperare il rapporto fiduciario con il contribuente, il fisco dovrà abbandonare misure di accertamento forfettario o puramente statistico, indirizzandosi invece verso strumenti tecnologici analitici per il riscontro delle informazioni rese dal contribuente.

d. Le imposte indirette.

Le imposte indirette, le quali per loro natura colpiscono iniquamente i contribuenti, dovranno avere una parte estremamente marginale, quasi inesistente, nel futuro sistema tributario ispirato ai principi costituzionali.

A tal proposito dovranno essere abolite l’I.V.A. e tutte le tasse su beni di consumo come ad esempio la benzina.

Dovranno altresì essere abolite le accise sulla produzione in quanto la tassa non dovrà rappresentarsi come un costo.

Dovrà invece essere riconosciuto alle imposte indirette il ruolo di strumento di disincentivazione di specifici consumi quali ad esempio tabacco e alcool (già presenti nel nostro ordinamento), o qualsiasi altro bene o servizio che il legislatore riterrà opportuno.

In questa ottica andrà rivisto anche il cosiddetto “Bollo auto”, che potrà essere usato come disincentivo all’uso di veicoli di trasporto privati in luogo dell’utilizzo di mezzi pubblici. Ovviamente tale disincentivazione troverà ragion d’essere solo quando i servizi di trasporto pubblici offriranno un servizio all’altezza delle aspettative di un paese moderno ed efficiente.

e. Imposte sul patrimonio.

– L’imposta immobiliare dovrà essere riformulata in termini progressivi e dovrà prevedere l’esenzione totale sugli immobili presso cui sarà adibita la residenza del proprietario (abolizione IMU su prima casa).

– Dovranno essere esentati dal pagamento di imposte gli interessi sui titoli di Stato Italiani e gli interessi sui conti correnti bancari o postali. Tale indirizzo trova spiegazione nel criterio che un sistema incentrato sulla piena occupazione produrrà un certo livello di inflazione, gradito ed accettato, il quale determinerà di fatto una tassazione indotta sui patrimoni mobiliari, che quindi non andranno nuovamente soggetti ad imposta.

f. Abolizione tributi per servizi.

Un’altra tendenza che dovrà essere invertita sarà quella di istituire o aumentare le tasse sull’erogazione di servizi pubblici.

In quest’ottica andranno aboliti le seguenti imposte e tributi:

  • ticket sanitario (erogazione servizi sanitari);
  • contributo unificato (erogazione servizi di giustizia);
  • TASI – TARI;
  • imposta di bollo;
  • imposta di registro;
  • imposta ipotecaria;
  • imposta catastale;
  • imposta provinciale di trascrizione.

g. Riforma del sistema di riscossione.

Nell’ottica di una razionalizzazione del sistema tributario deve anche trovare spazio la riforma del sistema di riscossione delle imposte.

Si rende necessaria a tal proposito la liquidazione del gruppo di Società per Azioni “Equitalia”, con l’accorpamento delle funzioni di riscossione in capo all’Ente Impositore.

 

4. CONCLUSIONI

 

Le proposte di riforma formulate rispecchiano la semplicità del dettato costituzionale, che con una formula contenuta in due righe detta le regole per un fisco equo, moderno e giusto, strumento indispensabile per una società civile basata sul progresso umano e sociale.

 

Andrea Franceschelli per “Associazione Riconquistare la Sovranità”

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8 risposte

  1. Massimo Bernetti ha detto:

    Se si attuasse questa riforma dovremmo prepararci ad un attacco atomico americano

  2. Ferrara Maurizio ha detto:

    A mio modesto avviso occorrerebbe inserire qualche rigo sulla giustizia tributaria, oggi sappiamo essere svolta in economia. Il giudice, come quello ordinario, dovrebbe essere un giudice effettivamente terzo, il processo dovrebbe essere sufficientemente garantista con una procedura più articolata ed istituzionalizzare il principio della soccombenza. Infine, qualora la lite si chiudesse in fase amministrativa prima del processo, occorrerebbe prevedere un lrincipio di risarcimento danni per errori dell’ufficio.

  3. Osvaldo Leone ha detto:

    f. Abolizione tributi per servizi.

    Al posto di: “Un’altra tendenza che dovrà essere invertita sarà quella di istituire o aumentare le tasse sull’erogazione di servizi pubblici.
    In quest’ottica andranno aboliti le seguenti imposte e tributi:”

    propongo la seguente modifica:

    “Un’altra tendenza che dovrà essere invertita sarà quella sulla istituzione o aumento di tasse sull’erogazione di servizi pubblici.
    In quest’ottica andranno se possibile aboliti o quanto meno revisionati le seguenti imposte e tributi:”

    • Gianluigi Leone ha detto:

      Favorevole all’emendamento. Prudenza ed esperienza suggeriscono un approccio meno netto, e più empirico.

  4. Enrico Bonfatti ha detto:

    Un’osservazione sull’esempio di utilizzo delle imposte indirette per incentivare / disincentivare determinate abitudini di consumo, in questo caso l’uso dell’auto: c’è ormai un’unanimità di pareri sul fatto che l’uso dell’auto è disincentivato dall’aumento delle spese variabili e non dall’aumento di quelle fisse come il bollo; anzi, chi più paga per l’acquisto e l’utilizzo di un’automobile è quello meno propenso a lasciarla in garage, proprio per il fatto che a quel punto l’incidenza sulla spesa complessiva del costo marginale degli utilizzi si riduce. La cosa migliore è quindi quella di tassare comunque i carburanti, che sono la spesa che spesso viene maggiormente percepita da chi usa l’automobile, magari istitutendo una “tassa di scopo” che obblighi a utilizzarne i proventi per promuovere mezzi di trasporto alternativi. Se si volesse utilizzare il bollo auto come leva per modificare le abitudini dispostamento degli italiani si dovrebbe istituire un “bollo chilometrico”, ma non so se la cosa è fattibile dal punto di vista giuridico, almeno non fino a che il bollo sarà una tassa sulla proprietà dell’auto, come mi pare sia ora.

    • Alberto Terra ha detto:

      Condivido la riflessione di Enrico Bonfatti riguardo al Bollo auto. Ritengo però oppurtuno ricordare che l’eventuale aumento delle accise sui carburanti dovrebbe essere attuato solemente dopo aver migliorato enormemente le prestazioni dei servizi di trasporto pubblico.

  5. Alberto Terra ha detto:

    Riguardo la parte delle PROPOSTE relativa alle Pre-condizioni necessarie, ho ritenuto opportuno fare una piccola modifica ed alcune aggiunte ai punti (B) ed (E). Le riporto di seguito per evere un vostro parere; faccio presente che, per rendere più agevole la lettura, le parti che ho aggiunto o modificato sono messe tra virgolette.
    (B). Pieno recupero in capo al Governo della Repubblica Italiana della “Sovranità” monetaria.
    Per il buon governo dei conti pubblici la leva fiscale deve essere impugnata assieme a quella monetaria, ed è per questo motivo che dovrà essere inequivocabilmente abbandonata l’ideologia che vuole l’indipendenza della politica monetaria dall’esecutivo.
    Il governo politico dovrà ritrovare la piena capacità di poter emettere “ la propia” moneta attraverso la Banca D’Italia e dovrà ripristinarsi lo strumento dello scoperto di c/c intestato al Ministero del Tesoro presso la banca centrale italiana. “Inoltre, si dovranno ripristinare il diritto dello stato italiano di determinare il tasso d’interesso dei titoli di pubblici emessi e l’obbligo della Banca D’Italia di acquistare tutti i titoli di stato rimasti invenduti sul mercato ( cioè, tornare ai meccanismi di debito pubblico operanti in Italia prima del 1981, anno in cui è avvenuto il famigerato divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca D’Italia)”.
    (E). Abbandono dell’ideologia della banca universale e ritorno al sistema bancario nazionale e prevalentemente pubblico.
    Un sistema bancario al servizio della collettività nazionale, che finanzi la crescita e lo sviluppo in maniera equilibrata, deve per forza di cose tornare ad essere prevalentemente pubblico ed operare solo in ambito nazionale. “ In particolare la Banca d’Italia dovrà tornare ad essere, nella definizione e nei fatti, un ente totalmente pubblico”.
    Il progetto fallimentare della banca universale deve, per la seconda – e speriamo ultima – volta nella storia, essere abbandonato. L’esercizio del credito deve essere separato da tutte le altre attività finanziarie, che in un sistema di repressione della rendita finanziaria saranno ovviamente anche ridimensionate.
    ASPETTO VOSTRI COMMENTI ED OPINIONI SUGLI EMENDAMENTI APPORTATI.

  6. Lorenzo D'Onofrio ha detto:

    N.B. Comunico che il Direttivo ha deciso di prorogare di 2 giorni il termine per la proposizione degli emendamenti, che scadrà quindi mercoledì 21 maggio.

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