IL PROTEZIONISMO E I SUOI NEMICI
di J. Sapir* Le Monde Diplomatique pubblicato su Appello al Popolo il 15 gennaio 2012
L’ampiezza e la profondità della crisi hanno rilanciato il dibattito sul protezionismo. Dibattito sensibile, a giudicare dalla virulenza dei difensori del libero scambio trasformato in feticcio. Con una presentazione dei fatti che camuffa la verità per ignoranza o disegno, il protezionismo viene presentato come un vero tabù. Il rifiuto di riconoscere il libero scambio come causa dell’attuale tormenta dimostra che i suoi sostenitori hanno abbandonato l’universo della riflessione per entrare in quello del pensiero magico. Il libero scambio induce un doppio effetto depressivo, diretto sui salari e indiretto in quanto rende possibile la concorrenza fiscale.
Infatti, per difendere i posti di lavoro, i governi dei paesi le cui imprese sono sottoposte direttamente alla concorrenza di produzioni a basso costo e debole protezione sociale tentano di tutelare il livello dei profitti sul proprio territorio (condizione necessaria per evitare le delocalizzazioni) trasferendo i contributi sociali delle imprese sui salariati. Alla pressione sui salari viene dunque ad aggiungersi una fiscalità più ingiusta e una riduzione delle prestazioni sociali (il salario indiretto). Tutto questo pesa sul reddito della maggior parte delle famiglie, che non possono mantenere il livello dei consumi se non con un crescente ricorso all’indebitamento, proprio nel momento in cui le loro risorse finanziarie si riducono. Al centro della crisi non ci sono dunque le banche, le cui difficoltà in questo caso non sono che un sintomo, ma piuttosto il libero scambio, i cui effetti si sono combinati con quelli della finanza liberalizzata.
Negli Stati uniti, la parte della remunerazione del lavoro nel reddito nazionale è crollata al 51,6% nel 2006 – il punto storico più basso dal 1929 – contro il 54,9% nel 2000 (1). Per il periodo 2000-2007, la crescita del salario reale mediano (2) è stata solo dello 0,1%, mentre il reddito mediano della famiglia diminuiva dello 0,3% all’anno in termini reali. La riduzione è stata più forte per le famiglie più povere. Nello stesso periodo, il primo quintile ha visto il proprio reddito diminuire dello 0,7% ogni anno (3). Dal 2000, la crescita del salario orario non corrisponde più a quella degli aumenti di produttività.
Il libero scambio spinge così i governi a trasferire il finanziamento delle prestazioni sociali dalle imprese ai salariati. Dal 2000 al 2007, il costo delle assicurazioni sanitarie negli Stati uniti (+ 68%), così come quello delle spese per l’istruzione (+ 46%) (4), è fortemente aumentato, mentre la percentuale dei cittadini senza copertura sociale è passata dal 13,9% al 15,6% (5) . Anche l’americano Paul Krugman, che a lungo aveva sostenuto che «la globalizzazione non è colpevole», ha dovuto riconoscere che la deflazione salariale importata tramite il libero scambio ha avuto un ruolo importante nel processo (6). Non stupisce dunque che, in simili condizioni, l’indebitamento delle famiglie americane sia esploso. Era pari al 63% del prodotto interno (Pil) degli Stati uniti nel 1998, e al 100% nel 2007.
Il fenomeno esiste anche in Europa dove si combina, nella zona euro, alla politica della Banca centrale europea (Bce) – la quale aggiunge il suo peso alle forze depressive importate. Alcuni paesi hanno seguito il modello americano, come ad esempio Spagna, Irlanda e Regno unito, e oggi assistono a un impoverimento relativo, e talvolta assoluto, della popolazione (7). La deflazione salariale importata ha prodotto in questi paesi un’esplosione dell’indebitamento delle famiglie che, superando nel 2007 il 100% del Pil, ha prodotto un fenomeno d’insolvibilità paragonabile a quello osservato negli Stati uniti. Anche in paesi relativamente lontani dal modello americano, la deflazione salariale è evidente. La Germania ha condotto una massiccia politica di delocalizzazione del subappalto. Si è così passati, grazie all’apertura dell’Unione europea ai paesi dell’Europa centrale e orientale, dalla logica del Made in Germany a quella del Made by Germany. Contemporaneamente, il governo tedesco ha trasferito sulle famiglie (tramite la tassa sul valore aggiunto, Iva) una parte dei contributi che pesavano sulle imprese. La strategia ha permesso un forte eccedente commerciale, a scapito dei partner della zona euro su cui la Germania riesporta deflazione salariale; ma al prezzo di una crescita debole, in quanto la domanda interna resta depressa malgrado una preoccupante crescita dell’indebitamento delle famiglie (68% del Pil). Quanto alla Francia, i governi di questi ultimi anni hanno tentato di reagire alla globalizzazione con politiche definite «di riforme strutturali». Le quali, allungando la durata globale del lavoro e mettendo in discussione le prestazioni sociali, non hanno fatto che confermare gli effetti della deflazione salariale importata. Come constata il Centro di ricerca per lo studio e l’osservazione delle condizioni di vita (Credoc): «la situazione delle “classi medie” somiglia più a quella dei bassi redditi che a quella degli alti redditi (8)».
La forma più vistosa di questa politica si ritrova nelle delocalizzazioni verso paesi a basso costo salariale e deboli regolamentazioni sociali o ecologiche. Ma l’aspetto più rilevante è costituito dal ricatto sull’occupazione, esercitato sui lavoratori e i loro sindacati affinché rinuncino a conquiste sociali e ad aumenti salariali.
Le direzioni aziendali utilizzano la minaccia della delocalizzazione per rimettere in discussione precedenti accordi e regolamentazioni sociali. Questa pressione ha pesanti conseguenze sulla situazione sanitaria dei lavoratori, come l’aumento delle patologie legate allo stress da lavoro (9). Se è vero, come dicono gli studi epidemiologici globali (10), che queste patologie hanno un costo sanitario pari al 3% del Pil, risulta evidente il legame tra le logiche della deflazione salariale e il deterioramento dei conti sociali in Francia e nei principali paesi europei. Ma la deriva (o quel che appare tale) dei conti sociali è servita da pretesto ai diversi governi, e per ultimo a quello di François Fillon, per rimettere in discussione un certo numero di diritti, trasferendo così i costi sui salariati. Le «riforme strutturali» contribuiscono dunque, direttamente e indirettamente, a creare condizioni di insolvibilità per la grande maggioranza delle famiglie. Esse sono al centro della crisi di indebitamento ipotecario che si è prodotta negli Stati uniti, nel Regno unito e in Spagna. In altri paesi, si traduce in una crescente fragilità delle famiglie ed esaspera il problema del «potere d’acquisto». Anche in Francia, dove le banche sono state molto più prudenti, l’indebitamento delle famiglie, stabile fino al 2000, cresce poi bruscamente dal 34% del Pil al 47,6% nel 2007. L’emergere negli ultimi dieci anni, del fenomeno dei «lavoratori poveri» sulle due rive del Reno, è direttamente legato a queste politiche.
La Cina e i paesi limitrofi, responsabili della deflazione salariale La deflazione salariale trae origine dalle avide politiche condotte, a livello di commercio internazionale, dai paesi dell’Estremo oriente dal 1998-2000, attraverso il libero scambio generalizzato voluto dall’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto). Tuttavia, queste politiche nascono prima di tutto come reazione allo choc rappresentato dalla crisi finanziaria del 1997-1999. È il caso della Cina, che ha dovuto assorbire, a causa dell’incuria e dell’incompetenza del Fondo monetario internazionale (Fmi), una buona parte dello choc della crisi asiatica lasciando che i suoi vicini ricostituissero eccedenti commerciali e finanziari a suo danno. Di conseguenza, la Cina e i suoi vicini hanno ritenuto necessario, nell’eventualità che una tale crisi si ripresentasse, creare notevoli riserve di cambio. Sono stati spinti ad attuare, sul piano del commercio internazionale, scelte aggressive realizzate attraverso svalutazioni molto forti, politiche di deflazione competitiva e limitazioni nel consumo interno. Tali misure hanno spinto al ribasso i salari nei paesi sviluppati. Si sono anche rivelate di un’allarmante efficacia, se si considera l’enorme accumulo di riserve di cambio realizzato dai paesi emergenti dell’Estremo oriente (di cui 1.884 miliardi di dollari per la Cina [11]) . L’economia cinese persegue da trent’anni un rapido recupero tecnico.
Nello stesso tempo, il costo salariale, diretto e indiretto, non cresce. Il miglioramento della qualità delle sue esportazioni minaccia a termine la totalità dei posti di lavori nell’industria. L’indice di similitudine, che misura la similitudine delle esportazioni di un paese con quelle dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), aumenta costantemente per la Cina, ma anche per altri paesi emergenti (12). Crolla il mito di una specializzazione internazionale, per cui questi paesi si concentrerebbero su prodotti semplici, mentre i paesi sviluppati manterrebbero il controllo sui prodotti sofisticati. La deflazione salariale importata è arrivata nell’Unione europea anche attraverso l’allargamento, a causa delle strategie dei «nuovi arrivati». Paesi come la Repubblica ceca, la Slovacchia, la Romania, ma anche, seppure in misura minore, Ungheria e Polonia hanno deliberatamente giocato con il dumping fiscale, i tassi di cambio vantaggiosi, i ridotti oneri sociali e le deroghe nell’applicazione delle normative ecologiche, per attirare investimenti di delocalizzazione. Tenuto conto delle dimensioni di questi paesi, è evidente che gli investitori non ci vanno per il loro mercato interno, ma per utilizzarli come piattaforma di riesportazione verso i paesi del centro storico dell’Unione europea (13).
Quanto all’idea che la deflazione salariale sia il prezzo da pagare perché altri paesi si sviluppino… niente di più sbagliato. L’impatto del libero scambio, imposto dal Wto ai paesi più poveri, è stato decisamente negativo. Anche se i primi risultati, pubblicati nel 2003, vantavano guadagni dell’ordine di 800 miliardi di dollari, le successive revisioni hanno registrato il crollo di tali stime (14). Ma i modelli utilizzati sono in realtà concepiti, volontariamente o meno, per massimizzare gli effetti positivi della liberalizzazione degli scambi. Sono caratterizzati dal mancato calcolo delle perdite di reddito dovute alla scomparsa delle barriere tariffarie (15)– tutt’altro che trascurabili. Bisogna poi considerare che la Banca mondiale e il Wto classificano la Cina tra i cosiddetti paesi «poveri», il che è molto discutibile. Se la si toglie dal campione, il risultato è negativo, quale che sia la metodologia impiegata (16).
Una misura necessaria, ma non sufficiente. Il reddito perso dai lavoratori dei paesi sviluppati non va ai salariati dei paesi emergenti, ma serve ad arricchire sempre più una piccola élite, la cui ricchezza è letteralmente esplosa negli ultimi dieci anni. Negli Stati uniti, lo 0,1% più ricco accumulava il 7,5% del reddito nazionale nel 2005, contro il 5% nel 1995 e il 2,9% nel 1985.
Il livello del 2005 corrispondeva a quello del 1929 (7,6%). Le stesse cause producono gli stessi effetti. Se, in un primo momento, i paesi beneficiari degli investimenti di delocalizzazione vedono la loro crescita accelerare, in seguito, con l’aiuto delle grandi imprese europee e americane, segano il ramo sul quale sono seduti. Così, l’impoverimento relativo e anche assoluto dei lavoratori dei paesi sviluppati ha prodotto la crisi attuale, con una brutale contrazione dei consumi che penalizza i paesi esportatori. Nel gioco del libero scambio, delle delocalizzazioni e della deflazione salariale, nessuno è vincente, se non chi ha intascato i profitti e ha saputo piazzarli in luoghi protetti.
Esiste però un secondo mito, utilizzato per tentare di screditare il protezionismo: le misure prese dopo la crisi del 1929 l’avrebbero aggravata, provocando il crollo del commercio internazionale (17). Nei fatti, i fattori determinanti furono l’instabilità monetaria, l’aumento dei costi di trasporto e la contrazione della liquidità internazionale (vedere il riquadro). I sostenitori del libero scambio dimenticano sempre di ricordare la conversione di John Maynard Keynes, che fu un risoluto sostenitore del libero scambio all’inizio degli anni ’20, poi, a partire dal 1933, del protezionismo (18). Keynes non ha più cambiato posizione fino alla morte, avvenuta nel 1946, mentre i suoi progetti di riorganizzazione del sistema monetario e commerciale internazionale hanno dato ampio spazio al protezionismo, pur condannando l’autarchia. Misure protezionistiche, che permettano di modulare gli scambi con l’esterno, al contrario dell’autarchia che porta a ripiegarsi su se stessi, sono dunque necessarie. È addirittura la condizione sine qua non di qualsiasi politica di rivalorizzazione salariale, che renda solvibili le famiglie e permetta di aumentare la domanda. Aumentare i salari senza toccare il libero scambio è insieme ipocrita e sciocco. Peraltro, solo il protezionismo può fermare la spirale del minor offerente fiscale e del minor offerente sociale che si è instaurata oggi in Europa.
Si può certo obiettare che l’avvio del protezionismo non modificherà automaticamente il comportamento delle imprese. Il padronato, una volta meglio protetto dalla concorrenza esterna, può tentare di mantenere il vantaggio. Avrà però perso il suo principale pretesto. È un fatto che oggi in Francia, come nei principali paesi sviluppati, a causa della pressione delle produzioni a basso costo, l’unica alternativa è la deflazione salariale (diretta e indiretta, attraverso i trasferimenti di oneri sui salariati), o la delocalizzazione e la disoccupazione.Togliendo al padronato questo strumento, si restituisce ai salariati una possibilità di ottenere con le lotte una migliore redistribuzione della ricchezza prodotta. Il protezionismo non è una panacea – non ve ne sono in economia – , ma una condizione necessaria. Il suo scopo deve essere precisato con chiarezza. Non si tratta di aumentare ulteriormente i profitti, ma di preservare ed estendere le conquiste sociali ed ecologiche. Il problema, dunque, non è penalizzare tutti i paesi che praticano bassi salari, bensì quelli la cui produttività converge verso i nostri livelli, mentre non vengono avviate politiche sociali ed ecologiche altrettanto convergenti. In breve, si tratta di impedire che il commercio mondiale trascini tutti verso il basso.
La cornice dell’Unione europea non è certo perfetta da questo punto di vista. Mentre si impone il ristabilimento di una seria tariffa comunitaria, risulta evidente che l’attuale spazio economico europeo è talmente eterogeneo da permettere che prosperino politiche di dumping fiscale, sociale ed ecologico. Oltre alla tariffa comunitaria, è perciò opportuno ipotizzare un ritorno agli importi compensatori monetari (19), in vigore negli anni ’60. Tali tasse, provvisorie, avranno il compito di compensare i divari non solo dei tassi di cambio, ma anche di norme sociali ed ecologiche tra i paesi della zona euro e gli altri membri dell’Ue. Un tale cambiamento implica un conflitto all’interno dell’Unione. Se la realizzazione di misure coordinate è, a termine, la soluzione migliore, solo la minaccia di misure unilaterali da parte della Francia può imporre l’apertura di un dibattito – finalizzato alla creazione di cerchi concentrici che permettano, all’interno dell’Unione, di rispettare le differenze strutturali esistenti tra i paesi membri. Le somme ricavate dalla tariffa comunitaria dovrebbero essere suddivise tra un fondo sociale europeo e aiuti mirati a paesi esterni disposti a impegnarsi, nel quadro di accordi a medio termine, ad aumentare le protezioni sociali ed ecologiche. Il totale degli importi compensatori dovrebbe integrare un fondo di convergenza sociale ed ecologica (20) a vantaggio dei paesi dell’Ue, che verrebbero così spronati a realizzare progressivamente questa doppia convergenza. L’alternativa al protezionismo e agli importi compensatori è semplice: o accettare che altri ci impongano le loro scelte in campo sociale ed ecologico, o imporre le nostre. Il libero scambio segna perciò la fine della libertà di scelta per quanto riguarda i sistemi sociali ed economici. Ricostruire il mercato interno su basi stabili Lo dimostrano i reiterati fallimenti di qualsiasi tentativo di costruire un’«Europa sociale», grande illusione di socialisti ed ecologisti, o molto più semplicemente di arrivare a un’armonizzazione fiscale.
Senza misure in grado di penalizzare le strategie di dumping sociale, fiscale ed ecologico, si impone la legge del «minor offerente». La combinazione di libero scambio e di rigidità monetaria dell’euro rende necessaria, dal punto di vista degli imprenditori, l’immigrazione clandestina. Il clandestino non è coperto dal diritto sociale esistente.Quindi l’immigrazione diventa l’equivalente di una svalutazione di fatto e di uno smantellamento dei diritti sociali di fronte alla pressione della concorrenza importata. Al di là di quel che dicono i governi, il ritorno al protezionismo diventa inevitabile (21). Lungi dall’essere un fattore negativo, potrebbe permettere una ricostruzione del mercato interno su basi stabili, con un notevole miglioramento della solvibilità sia da parte delle famiglie che delle imprese. In questo senso, sarà un elemento importante per una durevole uscita dall’attuale crisi e deve perciò diventare al più presto il punto centrale di un dibattito pubblico senza totem né tabù.
note:
* Direttore di studi presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales (Scuola degli alti studi in scienze sociali, Ehess), direttore del Centre d’études des modes d’industrialisation (Cemi ), autore di Le Nouveau XXIe siècle: du siècle «américain» au retour des nations, Seuil, Parigi, 2008.
(1)Cifre dell’Us Department of Commerce. Cfr. inoltre Aviva Aron-Dine e Isaac Shapiro, «Share of national income going to wages and salaries at record low in 2006», Center on Budget and Policy Priorities, Washington, DC, 29 marzo 2007.
(2) Un salario tale, che una metà dei lavoratori guadagni di meno e l’altra metà di più. Joint Economic Committee, Washington, DC, 26 agosto 2008.
(3) Ufficio Census, Us Department of Commerce. Il primo quintile rappresenta il 20% più povero sul totale delle famiglie.
(4) Us Congress, «Joint Economic Committee Memo», Washington, DC, giugno 2008.
(5) Us Congress, Joint Economic Committee, 26 agosto 2008 (6) Paul Krugman, «Trade and inequality, revisited», Vox, 15 giugno 2007, www.voxeu.org
(7) Mike Brewer, Alissa Goodman, Jonathan Shaw e Luke Sibieta, «Poverty and inequality in Britain 2006», Institute for Fiscal Studies, Londra, 2005.
(8) Regis Bigot, «Hauts revenus, bas revenus et “classes moyennes”.
Une approche de l’évolution des conditions de vie en France depuis vingt-cinq ans», convegno del Centro di Analisi Strategica, Parigi, 10 dicembre 2007.
(9) Cfr. Direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques (Dares), «Efforts, risques et charge mentale au travail. Résultats des enquêtes Conditions de travail 1984, 1991, e 1998», Les Dossiers de la Dares, n. 99, La Documentation française, Parigi, 2000; Patrick Légeron, Le Stress au travail, Odile Jacob, Parigi, 2001.
(10) Cifra per la Svezia e la Svizzera, cfr. Isabelle Niedhammer e Marcel Goldberg (a cura di), «Psychosocial factors at work and subsequent depressive symptoms in the Gazel cohort», Scandinavian Journal of Work, Environment & Health, vol. 24, nÊ 3, Helsinki, 1998.
Per la Francia, cf. Sophie Béjean, Hélène Sultan-Taïeb e Christian Trontin, «Conditions de travail et coût du stress: une évaluation économique», Revue française des affaires sociales, nÊ 2, Parigi, 2004.
(11) Riserve di cambio al 31 agosto 2008, secondo il Fmi. Il Giappone ne totalizza 1.200 miliardi di dollari, la zona euro 555 miliardi di euro.
(12) L’indice di similitudine dell’esportazione con l’Ocse è passato per la Cina da 0,05 nel 1972 a 0,21 nel 2005; per la Corea da 0,011 a 0,33; per il Messico da 0,18 a 0,33; per il Brasile da 0,15 a 0,20.
Leggere Peter K. Schott, «The relative sophistication of Chinese exports», Economic Policy, n° 53, Londra, 20 dicembre 2007.
(13) In Russia, gli investimenti riguardano essenzialmente il mercato interno; il paese si è protetto con non trascurabili tariffe doganali.
(14) Frank Ackerman, «The shrinking gains from trade: A critical assessment of Doha round projections», Global Development and Environment Institute, Working Paper, n° 05-01, Tufts University, Medford (Massachusetts), ottobre 2005.
(15) Drusilla K. Brown, Alan V. Deardorff e Robert M. Stern, «Computational analysis of multilateral trade liberalization in the Uruguay round and Doha development round», Rsie Discussion Paper n° 489, University of Michigan, Ann Arbor, 2002.
(16) «Libre-échange, croissance et développement. Quelques mythes de l’économie vulgaire» in Revue du Mauss n° 30, 2° semestre 2007, La Découverte, Parigi.
(17) Charles P. Kindleberger, «Commercial policiy between the wars» in Peter Mathias e Sidney Pollard (a cura di), The Cambridge Economic History of Europe, vol. 8, Cambridge University Press, 1989.
(18) John Maynard Keynes, «National self-sufficiency», The Yale Review, vol. 22, n°4, New Haven (Connecticut), 1933.
(19) Negli anni ’60, vengono decise tasse o sovvenzioni a livello europeo per fare convergere i prezzi nazionali.
(20) Leggere Bernard Cassen, «Inventare insieme un «protezionismo altruista» », Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2000.
(21) Leggere Frédéric Lordon, «La “menace protectionniste”, ce concept vide de sens» («La pompe à phynance», sito di Le Monde diplomatique).