DOCUMENTO DI RICONQUISTARE L’ITALIA SULLA SCUOLA

SCUOLA

 

 

ANALISI

 

1. Alla fine del XX secolo la scuola italiana necessita di un rinnovamento che attinga contenuti, forme, modalità da un’intelligente quanto dinamica opera di aggiornamento, riadattamento e reinterpretazione della tradizione umanistica nazionale.

Occorrerebbe insomma porsi nel solco già tracciato da Francesco De Sanctis:

Ciò che un giovane dee domandare alla Scuola è di essere messo in grado che la scienza la cerchi e la trovi lui. Perciò la Scuola è un laboratorio, dove tutti sieno compagni nel lavoro, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi e osservi insieme con loro, sì che attori sieno tutti, e tutti sieno come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito. Una Scuola così fatta non vale solo a educare l’intelligenza, ma, ciò che è più, ti forma la volontà. Vi si apprende la serietà dello scopo, la tenacità de’ mezzi, la risolutezza accompagnata con la disciplina e con la pazienza, vi si apprende innanzi tutto a essere un uomo.

Invece le spinte riformatrici giungono da tutt’altra direzione, per esempio dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali (ERT), nata nel 1983 per volontà del capo della Volvo. Negli anni successivi i documenti redatti dall’ERT influenzano la Commissione Europea tanto che, immediatamente dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, la Commissione accorda proprio a sé stessa la competenza in materia di insegnamento. In un mondo in rapida evoluzione tecnologica e tutto proteso alla globalizzazione, le industrie della ERT sono preoccupate dalla concorrenza USA e intendono utilizzare ogni strategia per consolidarsi sul mercato europeo e per affermarsi anche sui mercati globali.

L’accumulo di conoscenze induce un’accelerazione costante del ritmo di cambiamento tecnologico e ciò determina la perenne incertezza e instabilità dell’ambiente economico: a tal scopo serve un cambiamento rapido nella formazione dei lavoratori che, sostiene l’ERT già nel 1995, devono essere “autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide”. Sono queste le idee che ispirano prima la ERT e pochi anni dopo (2001) la Commissione Europea, secondo la quale l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un “obiettivo strategico” principale: aiutare l’Europa a “diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica e duratura”.

I cardini principali del discorso educativo europeo si riassumono in poche parole: competenze, formazione permanente, ICT (Information and Communication Technology), deregolamentazione, rapporti con le imprese, rapporti con il territorio, diversificazione, armonizzazione, mobilità, cittadinanza, lotta all’esclusione.

Il ruolo principale della scuola secondo le autorità europee non è più quello di trasmettere saperi “socratici” basati sul dialogo e sul senso critico ma, spiega la Commissione Europea, di “dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un miglior adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro”. Al Summit di Lisbona del 2000 si invocano le nuove competenze di base relative alle tecnologie dell’informazione, alla comunicazione nella lingua madre e nelle lingue straniere, a una cultura tecnologica, allo spirito d’impresa e alle attitudini sociali; ove si precisa che non si tratta di discipline come le abbiamo conosciute a scuola, bensì di “vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari”. Lo stesso documento chiarisce quali siano le competenze sociali (“fiducia in sé stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi”) e le competenze imprenditoriali (“capacità dell’individuo di superarsi nel campo professionale”, “attitudine a diversificare le attività d’impresa”, formazione permanente).

Il ritmo sfrenato dei cambiamenti costringe i lavoratori a cambiare frequentemente il posto di lavoro o l’impiego ed esige da essi una grande capacità di adattamento, piuttosto che qualifiche specifiche; questo spiega perché la competenza più richiesta, più citata e sempre all’attenzione di tutti i documenti sia la capacità di imparare a imparare, apprendere per tutta la vita. “Il concetto di educazione e di formazione permanente”, avverte la Commissione Europea, “non ha più una portata restrittiva; deve ormai trattarsi di regolare l’offerta e la partecipazione, quale che sia il contesto di apprendimento pratico considerato”.

 

2. Negli stessi anni ’90 le dottrine neoliberali conquistano partiti e politici italiani inducendoli a intervenire sulla scuola con un’opera di graduale privatizzazione: quella avviata da Berlinguer, Bassanini e dai pedagogisti di regime.

Poiché ciascun individuo è destinato a cambiare più volte la sua attività lavorativa nel corso dell’esistenza, la scuola non deve più pretendere di consegnare saperi, abilità e capacità definitive. Deve invece puntare sullo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere problemi.

Il sistema dell’istruzione va allora disarticolato, privato del suo caratteristico impianto piramidale (nel quale ogni ciclo di studio aveva funzione propedeutica rispetto ai cicli successivi), per assumere una struttura modulare, fluida, finalizzata a favorire la crescita di autonomie individuali capaci di “riconversione professionale e di apertura alle evoluzioni dei saperi nel corso dell’intera vita” (Quadro di riferimento e linee guida della riforma, Luigi Berlinguer, 14 gennaio 1997): sembra di leggere un copia-incolla dai documenti della ERT e della Commissione Europea.

Poiché il sistema nazionale della pubblica istruzione è considerato di per sé negativo (centralistico, rigido, burocratico, soffocatore di creatività), i riformatori inventano la scuola dell’autonomia: una scuola destrutturata, cioè privata di ogni rigidità di sistema e “liquida”. Il congegno dell’autonomia è pensato fin nei minimi dettagli per dissolvere il sistema nazionale e per saldare i singoli istituti scolastici a interessi locali e privati.

Nel precedente sistema nazionale di Istruzione Pubblica i singoli istituti scolastici erano articolazioni settoriali e locali che venivano dirette per discipline, contenuti e finalità dall’organismo centrale. La modernizzazione dell’Italia, condotta a tutto campo dal ceto politico della sinistra di governo, significa per la scuola la sostituzione di quel sistema con un modello in cui ogni singolo istituto scolastico progetta sé stesso.

Questa forma di autonomia implica molte scuole in competizione fra loro per procacciarsi utenti e risorse. La competizione fra scuole dovrebbe svolgersi sul Piano dell’Offerta Formativa (POF): nella realtà si svolge sul terreno delle risorse, delle immagini, delle lusinghe per attrarre “utenti”, degli intrecci con i poteri territoriali, quindi sul piano strumentale, cioè in una dimensione che non ha niente in comune col linguaggio e lo spirito della cultura. La riforma, che doveva “razionalizzare” le risorse, nella pratica accorpa gli istituti, taglia le classi, riduce gli organici, mentre la competizione produce effetti a dir poco indecorosi: lo spettacolo delle scuole che si fanno concorrenza a colpi di spot è triste e umiliante.

Fino a quando è esistito il sistema della scuola pubblica nazionale, gli insegnanti venivano selezionati in base a titoli di studio uguali per tutti, diplomi con valore legale e concorsi nazionali. Dopo lo smantellamento del sistema pubblico, è evidente che se ogni istituto si dà un POF si deve dotare degli insegnanti funzionali a quel POF: quindi ogni scuola pubblica si comporta come quelle private, dovendo reperire finanziamenti e scegliere insegnanti da proporre agli studenti-utenti. La società individualista riconosce come arbitraria una selezione pubblica degli insegnanti; da più parti si comincia a chiedere di abolire il ruolo, il valore legale del titolo di studio e i contratti di lavoro collettivi sostituendoli con curriculum personalizzato (che certifichi il grado di impiegabilità) e con rapporti e contratti individuali.

Con la riforma i presidi diventano di colpo Dirigenti Scolastici: loro compito è quello di assicurare la gestione unitaria dell’istituzione, delle risorse strumentali e finanziarie e dei risultati del servizio. Ai DS vengono assegnati poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane, sono titolari delle relazioni sindacali, possono avvalersi di docenti da loro individuati a cui delegare specifici compiti. Viene assegnato loro anche “l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie”, mentre la scuola viene adeguata alle logiche di risparmio aziendale. Nel DPR 233/98 (Bassanini) si legge che “Il numero dei dipendenti del comparto scuola deve risultare alla fine del 1999 inferiore del 3% rispetto a quello rilevato alla fine dell’anno 1997″. Il che ha significato 21.000 posti di lavoro in meno. Il taglio era richiesto dalla volontà di privatizzare la scuola, per equipararla a un’impresa economicamente sana e quindi appetibile. In quest’ottica il Ministero della Pubblica Istruzione cambia il nome in Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Con la riforma viene introdotto il comitato per la valutazione del “prodotto educativo”, che si avvale dei “crediti e debiti” che nascono in vista di una carta europea extrascolare e dell’educazione permanente preconizzata dall’ERT: PEI, POF, funzioni obiettivo, crediti e debiti, demagogici statuti delle studentesse e degli studenti, valutazioni spersonalizzate con sistemi di tipo anglosassone (i test INVALSI) tendono a sopprimere il momento fondamentale della valutazione orale e ad avvicinarci alle esperienze europee e americane.

Secondo le intenzioni dei riformatori come Berlinguer, e di Confindustria che li sostiene, la scuola deve preparare ai voleri dell’impresa neoliberale educando alla sottomissione e all’accettazione dell’esistente: la scuola dell’autonomia è, in sostanza, la scuola “delle conoscenze, delle competenze e delle capacità” che devono presiedere a giudizi e certificazioni, la scuola dei “crediti formativi riconoscibili”. Questo complesso di riforme non risponde a un’esigenza culturale ma orienta la scuola verso le richieste del mercato, verso l’aziendalizzazione: in altre parole, ci si avvicina a grandi passi alla realtà americana, nella quale a una scuola pubblica assolutamente dequalificata fanno da contraltare le scuole private, le cui rette arrivano a costare anche 40 mila dollari l’anno.

 

3. Dopo Berlinguer il processo di destrutturazione della scuola progredisce di pari passo, da una parte con i finanziamenti statali e le agevolazioni fiscali agli istituti privati, dall’altra con drastici tagli all’istruzione pubblica.

L’Italia, in effetti, è uno dei paesi europei che destinano una delle più basse quote del PIL all’istruzione preuniversitaria (appena il 2,7%, contro il 4,4% del Regno Unito) e che negli ultimi anni hanno tagliato più posti di lavoro. Come se non bastassero la riduzione degli insegnanti e dei bilanci con il conseguente accorpamento di scuole e corsi di laurea, la legge 107/2015 (la cosiddetta “Buona Scuola” di Renzi) attacca frontalmente il principio della libertà d’insegnamento sancito dall’art. 33 della Costituzione, rafforzando in modo abnorme la funzione del Dirigente scolastico.

In quanto “responsabile delle scelte didattiche, formative, della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti” (art. 7), il Dirigente elabora il PTOF Piano triennale dell’offerta formativa) “con l’eventuale coinvolgimento dei principali attori economici, sociali e culturali del territorio” (art.2), sceglie a sua discrezione i docenti dell’organico dell’autonomia, valuta i docenti in prova (che ha facoltà di licenziare), stabilisce l’attivazione di eventuali insegnamenti opzionali e anche in base al rendimento dei loro studenti decide quali insegnanti premiare (il 5% del corpo docente in ogni scuola).

La “Buona Scuola” prevede inoltre l’alternanza scuola-lavoro (400 ore per il triennio degli istituti tecnici e professionali e 200 per quello dei licei) e, fin dal secondo anno di tutti gli indirizzi, la possibilità di accedere a una formazione aziendale tramite i contratti di apprendistato. La sottomissione della scuola pubblica agli interessi delle aziende e degli imprenditori è totale, ma è grave anche la minaccia mossa alla coesione e alla solidarietà nazionale. Grazie alla nuova legge, infatti, gli istituti possono beneficiare sia di erogazioni liberali con un credito d’imposta del 50% sia della devoluzione del 5 per mille: ciò comporta inevitabilmente una disparità nel Paese, poiché le scuole frequentate da alunni benestanti disporranno di risorse maggiori rispetto a quelle dei poveri.

 

 

PROPOSTE

 

Alla deriva aziendalista della scuola Riconquistare l’Italia oppone un rifiuto deciso, proponendo innanzitutto l’abolizione dell’art. 21 della legge Bassanini e in secondo luogo quella della legge 107 che ne costituisce una diretta conseguenza.

Riconquistare l’Italia dichiara, inoltre, la propria ostilità alla “parità scolastica”, nella convinzione che lo Stato debba garantire alla scuola pubblica tutti i finanziamenti necessari senza accollarsi oneri che non gli spettano (art. 3 della Costituzione).

L’abolizione dell’autonomia e della parità scolastica, come pure della “Buona Scuola”, rappresentano le condizioni necessarie al conseguimento dello scopo essenziale dell’istruzione: non la formazione di consumatori spiritualmente anestetizzati e abbrutiti ma l’educazione di uomini liberi, vivi, aperti a ogni sollecitazione culturale.

Da questi punti fondamentali deriva l’impegno di Riconquistare l’Italia a favore di:

incremento della spesa scolastica per edilizia e organici e parallelo ridimensionamento dei grandi istituti – sorti dall’accorpamento di più scuole -, la cui ragion d’essere dipende unicamente da esigenze di bilancio. Oltre a creare enormi disagi agli alunni, alle famiglie e al personale, il continuo ricorso ai “tagli” si pone in contraddizione frontale con un’idea di scuola in grado di adempiere al dettato costituzionale e di assicurare una formazione di qualità a tutti, ovviando a eventuali svantaggi e disparità in termini di situazioni territoriali e di condizioni economiche e socio-culturali di partenza;

rafforzamento degli organi collegiali, in particolare del Collegio dei Docenti. Il presunto ammodernamento del sistema educativo sbandierato dai fautori dell’autonomia scolastica non solo non libera la scuola e il lavoro dell’insegnante da lacci e lacciuoli burocratici di ogni tipo ma li subordina a interessi esterni dalla valenza educativa assai discutibile;

abolizione dei test INVALSI, la cui importanza fondamentale nell’attuale sistema di valutazione dell’istruzione rappresenta, come mostra l’esperienza dei paesi anglosassoni, un potente elemento di omologazione e di limitazione della libertà di insegnamento e apprendimento;

mantenimento dell’obbligo scolastico a tutto il biennio delle superiori, come previsto dalla riforma Berlinguer, a cui segue un triennio con esame finale;

affermazione del principio della centralità del gruppo classe e della continuità didattica: la scuola non deve rappresentare l’anticamera della precarizzazione tipica del lavoro nell’odierno contesto neoliberale – al contrario, essa deve offrire punti di riferimento forti, sotto l’aspetto didattico-educativo che le compete, a studenti sempre più fragili, disorientati e abbandonati a sé stessi;

uniformità a livello nazionale di concorsi, programmi, discipline e loro contenuti: tale uniformità va realizzata con l’abolizione dei PTOF d’Istituto (previsti dalla “Buona scuola”) e con il ripristino della “programmazione curricolare”, che lascia comunque spazio all’indipendenza e alla creatività del singolo insegnante;

scuola di qualità in tutti i suoi indirizzi e giusta severità degli insegnanti. La scuola non deve sorvegliare né punire. La scuola deve favorire il libero sviluppo della persona, come indica la Costituzione: non solo istruire ma educare, formare il senso critico individuale. L’educazione, però, non può realizzarsi con efficacia se non esistono limiti e regole, a maggior ragione in una società ipocritamente permissiva come quella capitalista. Viene promosso chi si impegna, chi raggiunge i livelli di conoscenza minimi richiesti, che devono essere elevati, chi dimostra di saper convivere con gli altri. Altrimenti ripete l’anno. Nessuna sanzione, nessuna punizione; una giusta bocciatura (giusta nel senso che tenga conto, cioè, del contesto di provenienza dell’allievo e di eventuali oggettivi svantaggi derivati) è più educativa di una promozione regalata;

mantenimento del valore legale del titolo di studio che, in quanto attribuito dallo Stato, ne conferma il ruolo di garante dell’omogeneità del sistema scolastico (artt. 9 e 33 della Costituzione);

 riorganizzazione dell’attuale Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Al suo posto sono ripristinati il Ministero della Pubblica Istruzione (MPI), responsabile delle politiche di educazione e scolarizzazione nazionali, e il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), responsabile delle Università Pubbliche e Statali e degli enti di ricerca;

stanziamento di risorse per garantire il diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli;

aumento delle risorse e degli incarichi agli insegnanti di sostegno al fine di ristabilire i livelli occupazionali precedenti ai tagli imposti dalle riforme dell’ultimo decennio.

 

Documento approvato dal Congresso di Riconquistare l’Italia il 28 marzo 2021.

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