Per una Sovranita' non qualunque

PER UNA SOVRANITA’ NON QUALUNQUE

Con l’aggravarsi della crisi della zona euro, il tema della sovranità e l’ipotesi di una uscita dell’Italia solo dalla moneta unica per alcuni, necessariamente anche dai Trattati europei ad avviso non solo nostro, si stanno facendo strada pure in Italia, pur con percorsi e contenuti molto diversificati. Purtuttavia, allo stato, ancora si veicolano affermazioni catastrofiste, tanto perentorie quanto irrazionali, per seminare paure, con l’Italia della lira –ancor più se sovrana a tutto campo– data per travolta da uragani di svalutazione e quindi d’inflazione (ma nel ’92, a seguito della svalutazione, secondo i dati ufficiali l’inflazione calò), tempeste speculative, sconquassi sociali propagandati come inimmaginabili, il tutto funzionale ad incassare un consenso emotivo, il più largo possibile, sull’irreversibilità dell’euro e sulle relative politiche d’accompagno. La paura indotta tra la popolazione sta servendo anche per indurla ad accettare alterazioni profonde in senso ancor più autoritario ed oligarchico dei preesistenti assetti economici, sociali, politici, e a far passare politiche non esclusivamente economiche, che di fatto stanno acuendo la subalternità dell’Italia ad una gerarchia di decisori con in cima quelli d’ultima istanza, i centri strategici situati negli States, regolatori del polo capitalistico “occidentale”. Il tempo della convergenza di interessi tra Stati Uniti e Germania, con quest’ultima che vide nell’euro l’opportunità di indebolire gli Stati europei e consolidare un ruolo politico da semipotenza globale, è in via di esaurimento e a Berlino si dovrà sciogliere il nodo se accontentarsi di un ruolo regionale ben delimitato oppure no, con relativi passi. La funzione politica per eccellenza del processo d’integrazione europea sta consistendo proprio nell’introdurre surrettiziamente, anche sotto lo choc della crisi e dei costi conseguenti, e propugnandoli come scelta tecnica, provvedimenti via via invasivi (in ambito politico, finanziario, industriale, fiscale, sociale…), forieri di altri, fatti passare come conseguenti ed inevitabili. Il tutto viene presentato in modo da indurre a ritenere che non vi siano alternative alla permanenza coatta nella zona euro. Allo stesso tempo, per il tramite dell’oligarchia politica e tecnocratica europeista ed i vincoli di subordinazione alla potenza centrale dominante, gli Stati Uniti, si rafforza l’intreccio dei condizionamenti, delle relazioni, degli interessi particolari di frazioni di classe sub/dominanti dei diversi Stati in Europa con quel ‘centro’ regolatore e decisionale, attualmente ancora d’ultima istanza, d’oltreatlantico. Un’Italia allo sfascio servirà a renderla completamente asservita, come sua terra di conquista e allo stesso tempo come sua retrovia per manovre d’area sul piano internazionale.

Il Governo Monti, sostenuto da un vastissimo arco di forze (PDL, PD e centristi) che mai un presidente del Consiglio ha avuto in questo paese, prosegue deciso sulla strada dell’esecuzione dei mantra euroatlantici della sempre più drastica riduzione dei bilanci pubblici, peraltro perseguita tramite il taglio non tanto di odiosi privilegi e spese parassitarie, quanto soprattutto di pensioni, salari, fondi per istruzione e sanità, personale della pubblica amministrazione, eccetera. In pochi mesi il governo Monti ha saputo, in sostanza, produrre un programma di macelleria sociale (“spending review”) ed introdurre princìpi normativi che mirano a legare indefinitamente paese e futuri governi a direttive esterne. In gioco vi sono non solo benefici per certi ‘grandi’ gruppi parassitari, ma soprattutto finalità egemoniche geopolitiche di asservimento che puntano e non si limitano ad acquisizioni tramite dismissioni/svendite del patrimonio pubblico, dei servizi pubblici locali e delle partecipazioni statali in aziende strategiche (Terna, Snam Progetti, Finmeccanica, Poste, Enel, eccetera).

Le riforme depressive del governo Monti sono indirizzate a produrre ciò per cui sono state pensate, e cioè rendere l’Italia un paese di consumatori e salariati dalle prospettive sempre più precarie, privo di un progetto o un asse industriale, stretto nella contraddizione di una sempre maggiore dipendenza dalle importazioni dall’estero e di un’espropriazione massiccia di ricchezza, a vincolare l’intero paese e a tenerlo ingabbiato il più a lungo possibile nel sistema euroatlantico.
A peggiorare il quadro s’inscrive l’ormai costituzionalizzato “Fiscal Compact”, Trattato dell’Unione Europea che impone il pareggio di bilancio. Approvato lo scorso luglio dal parlamento, senza sostanziali discussioni ed una pubblica informazione, impone la riduzione del debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni nella misura del 5% annuo, con misure di sorveglianza e punitive in caso di inadempienza. Comporterà per l’Italia un obbligo di riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032, attraverso pesanti manovre di correzione ogni anno cui si aggiungono le spese per gli interessi sul debito e l’ulteriore indebitamento derivante dagli obblighi connessi alle somme da versare o “impegnare” per FMI e i vari “Fondi Salva-Stati”, ultimo il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) con il risultato che per molti anni sarà impossibile alcun investimento pubblico e saranno in atto solo misure depressive che acuiranno la spirale debitoria.
Come in Grecia, in Spagna, in Portogallo, anche in Italia le politiche depressive, prima ancora di non aiutare a risanare i conti, devastano la società. Comprimono i redditi, determinano calo dei consumi e della domanda, disoccupazione, producono recessione, contrazione della produzione, congelamento del credito e degli investimenti, devitalizzano i settori produttivi, innescano fallimenti a catena. Una strada verso il baratro. Eppure l’amministrazione Monti, ottemperando alle direttive euroatlantiche, sta spingendo sull’acceleratore con aumenti indiscriminati delle tasse, riduzione di salari, tutele sindacali, diritti, tagli ulteriori alla spesa pubblica, ulteriore svendita del patrimonio nazionale pubblico e privato (immobili, partecipazioni azionarie in aziende strategiche, beni demaniali, ecc.). Una spirale di pervicace applicazione dei diktat europei senza fine e senza razionale via d’uscita, con il deterioramento progressivo delle prospettive economiche e sociali del paese sotto gli occhi di tutti.

Chi evoca la necessità di un’uscita da questa moneta straniera (l’euro), del ritorno ad una propria moneta nazionale (la lira) e del recesso dai Trattati europei senza condizione alcuna, viene bollato come un avventuriero irresponsabile, senza che i sostenitori della zona euro forniscano argomenti più convincenti a sostegno delle loro posizioni e a fronte di uno sfacelo progressivo.
La partita è in prospettiva destinata ad essere giocata sulla capacità di elaborazione non solo di una eventuale strategia di uscita dall’euro, dai Trattati e dall’Unione (che non sarà comunque priva di instabilità e sacrifici) ma anche della prospettiva di società che ne scaturirebbe.
E’ bene, quindi, prepararsi sia a scenari e anche avere chiarezza delle problematiche nient’affatto insormontabili che una prospettiva post-euro, post Trattati e post Unione Europea comporterà, nella consapevolezza che variegate saranno le forze, diversi gli interessi/aspirazioni e, con ogni probabilità, congiunturali gli aspetti di comunanza tra sensibilità diverse.
Sul piano dell’analisi è bene scendere attrezzati. Intanto un punto preliminare va chiarito: un’uscita solo dall’euro con ritorno alla moneta nazionale, in presenza di obblighi e direttive scaturenti dai Trattati, non migliorerebbe lo status della dipendenza, anzi lo peggiorerebbe, in assenza di vincoli, ad esempio, ai movimenti dei capitali (la cui liberalizzazione, destabilizzante, è ‘a monte’ della crisi finanziaria globale) e delle merci (laddove siano penalizzanti per la produzione nazionale). Vincoli che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. Del resto dipendere dagli investimenti stranieri e dai cosiddetti “mercati” significa condannare il paese al soffocamento per il combinato di debito estero, speculazione, perdita di comparti strategici, ufficializzando così la condizione di sudditanza. In altri termini sono le dinamiche spoliatrici cosiddette di globalizzazione, in cui l’Unione Europea, i suoi Trattati e la relativa moneta coloniale s’inscrivono, ad essere distruttive del tessuto sociale ed economico di un paese. Al neoliberismo è necessario contrapporre un neo-protezionismo (con il mercato degli altri sono tutti liberisti) non finalizzato però al foraggiamento di oligarchie imprenditoriali parassitarie e con rapporti sovrani e di relazione senz’altro tra paesi periferici, normali rapporti di vicinanza per lungo tempo ingessati dal vincolo innaturale del cambio fisso prima e della moneta unica poi. L’Italia necessita del ritorno ad una moneta nazionale con relativo pieno controllo dei tassi di interessi e della sua libera emissione e senza più alcuna dipendenza dai mercati finanziari, nonché la possibilità di agire, tramite il deprezzamento del cambio, per un recupero di competitività, aumento delle esportazioni e riduzione dei disavanzi commerciali della bilancia dei pagamenti con l’estero. L’Italia ha urgente bisogno di una moneta debole e più svalutata (e di una politica estera di sostegno) per far ripartire la ripresa degli scambi commerciali con l’estero (i prezzi dei prodotti di importazione maggiorerebbero, perdendo convenienza rispetto a quelli locali), di un’autonomia, strategia e ampia libertà di manovra nelle scelte di politica economica, fiscale e monetaria in senso espansivo (all’occorrenza sostenendo maggiormente la ripresa del nostro settore produttivo interno, con opportune barriere protezionistiche, sussidi alle nostre imprese, dazi doganali) ed anche in direzione della difesa degli asset strategici da difendere dalle acquisizioni estere. E, tanto per cominciare, è necessario individuare criteri che evitino che il deprezzamento del cambio sia scaricato anche all’interno, nel mondo del lavoro subordinato e sui salari, al che si potrebbe ovviare con il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari e di controllo amministrativo dei prezzi di alcuni prodotti “base”.
Quindi: moneta nazionale; limitazione della circolazione dei capitali; banca centrale nazionale non autonoma; nazionalizzazione o controllo pubblico di settori economici strategici, a cominciare da quello bancario; ripristino di forme di controllo e di protezione finanziaria; protezione del settore agro-alimentare con il rigetto delle direttive e limitazioni europee che l’hanno penalizzato oltre ogni misura tollerabile; sganciamento dalla dipendenza dal petrolio (che insieme ai prodotti agro-alimentari concorre al maggior peso delle importazioni) con l’incentivazione delle energie rinnovabili; fuoriuscita dal mercato unico europeo; sganciamento dall’alleanza atlantica; eccetera.

Si tratta di alcuni punti, a maglia larga, di orientamento strategico di un sovranismo non qualunque, che non si connoti solo come “anti”, che abbia un sostanziale profilo e identità politica conseguente. Infatti, se è opportuna la ricerca più ampia di un raggruppamento di forze di liberazione, un sovranismo non vale un altro, non è cioè secondaria la fisionomia, la natura, la prospettiva di un sovranismo piuttosto che un altro.
Accanto al proliferare di formazioni valide o comunque interessanti, ve ne sono altre, non poche, di sedicente sovranismo. Sorvolando sulla pluralità di forze che va da settori del centrodestra (fautrici di un ‘sovranismo antitedesco ma in ambito atlantico’ nell’illusoria speranza di contrattare al meglio la propria sudditanza) al pluriverso della destra radicale (i diversamente imperiali), troviamo anche ‘altro’, che qui richiamiamo solo in parte. Troviamo i sostenitori della moneta (se non addirittura di monete plurali) come esclusiva via per l’affrancamento. Troviamo un sedicente movimento (“Indipendenti per l’Italia”) che si richiama all’esperienza del governo Monti, ne auspica una riedizione dopo il voto del 2013, comunque intende continuare su quella strada. Troviamo chi (Francesco Giavazzi, editoriale sul Corriere della sera, 4 agosto 2012) sostiene che “per tutelare la nostra indipendenza economica e politica (…) si cominci a vendere qualche società pubblica, ad esempio quote di Terna e Snam Rete Gas”, insomma una svendita delle nostre infrastrutture strategiche (altri ne aggiungono altre). Troviamo altri su similari posizioni, ritenendo che sia ormai irreversibile la fuoriuscita del paese dalla ricerca e dalla grande industria strategica, propone un’elaborazione del lutto attraverso un’acquisita consapevolezza dell’indebolimento e della perifericità del paese e alla luce di questo perora di ritagliarsi spazi ancor più subordinati in qualche interstizio delle linee strategiche tracciate dal centro regolatore del ‘polo’ capitalistico ‘occidentale’, gli Stati Uniti, presentando il tutto come difesa degli interessi nazionali. Politiche compradore che così si intrecciano ad interessi parassitari.
Troviamo fautori sedicenti “sovranisti” che intendono riformare l’Unione Europea come Stati Uniti d’Europa dotata di moneta sovrana, di un Parlamento continentale in cui sia rappresentata la sovranità di un fantasmagorico “popolo europeo” e a cui qualunque organo esecutivo-amministrativo debba dar conto, con una Banca Centrale subordinata alle istituzioni politiche, acquirente residuale dei titoli degli Stati e fautrice dell’applicazione a livello di Unione Europea di politiche espansive, sorta di New Deal neo-rooseveltiano.

Tutto questo rende evidente che non basta richiamarsi al sovranitarismo, che non è indifferente la direzione e la qualità politica del vettore, che non è secondaria la natura del progetto politico e della strategia politica necessari a sostenere le aspirazioni di un fronte sociale dominato e di un paese da liberare. Altrettanto evidente è il grosso lavoro politico da continuare a portare ‘a sinistra’.
Le forze della sinistra (moderata o di estrema sinistra), anche quelle che operano in altri paesi del continente europeo, in gran parte hanno accettato tutti i pregiudizi e le ideologie che hanno accompagnato la cosiddetta costruzione europea. Seppur delle crepe qua e là cominciano a vedersi, la gran parte di loro è soggiogata all’idea che l’euro e l’Unione Europea rappresentino una conquista irrinunciabile. La cecità politica è tale da non vedere la devastazione che si sta producendo. Chi anche intendesse perseguire un moderato riformismo dentro l’Unione Europea non trova fattivamente spazi, giacché anche quello, a ben vedere, necessita della sovranità dello Stato nazionale. Soprattutto non sono preparate all’eventualità di un crollo dell’euro. Non hanno alcun tipo di analisi al riguardo. Nulla. Le forze politiche che propongono l’uscita dalla moneta unica e magari anche dal mercato unico europeo sembrano essere destinate a veder crescere i loro consensi, a danno soprattutto di quelle che hanno scelto di arroccarsi in difesa dell’Unione. A sinistra, proprio tra le componenti sociali di riferimento prevedibilmente in via di scollamento, in quest’area potenzialmente più ricettiva a sollecitazioni per un diverso assetto di società, vi è quindi una battaglia politico-culturale da portare avanti, che connetta la valenza della rivendicazione sovranitaria alle istanze sociali di liberazione. Una battaglia politico-culturale di cui “Indipendenza” si sente parte e che la cruda materialità degli eventi ed i relativi effetti è destinata a rafforzare nella sua fondatezza e valenza di senso.

Indipendenza
7 ottobre 2012

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