COMBATTERE LA RENDITA URBANA – DOCUMENTO APPROVATO DALL’ASSEMBLEA NAZIONALE DELL’ARS (8 GIUGNO 2014)
L’Associazione Riconquistare la Sovranità propone di instaurare un regime giuridico di abbattimento della rendita urbana.
Si ha sfruttamento di rendita urbana quando il proprietario di un suolo, in posizione di vantaggio rispetto ad altri proprietari, in seguito ad una certa previsione di piano incamera le plusvalenze costituite dalla differenza tra il prezzo di mercato e il prezzo di produzione di un immobile o di un terreno divenuto edificabile.
Tali prelievi ingiustificati di ricchezza non sono compatibili con una società moderna democratica e costituzionale, in quanto predeterminano la forma dell’ambiente antropizzato attraverso il criterio dominante dell’accumulazione parassitaria.
L’Italia vide aggravarsi il problema della rendita negli anni successivi alle ricostruzioni postbelliche. L’improvvisa crescita economica produsse un’incontrollata fase di espansione urbana. Tra il 1953 e il 1963 i prezzi delle abitazioni si triplicarono, mentre il prezzo medio dei suoli edificabili si decuplicò incidendo in maniera insostenibile sul costo finale dei fabbricati. Il peso della rendita era cresciuto a pregiudizio dei redditi propri dell’industria delle costruzioni. Non potendo comprimere maggiormente i costi di produzione, la domanda di appartamenti popolari rimase insoddisfatta. Si realizzò così (parole di Leonardo Benevolo) “lo scopo della speculazione, cioè lo sganciamento dell’offerta dalla domanda, a svantaggio dei costruttori e dei consumatori, e nell’interesse esclusivo di poche decine di proprietari terrieri».
La città della rendita divenne visibile agli occhi di tutti: un agglomerato informe, sporco e caotico, che nega le identità storiche, distrugge il patrimonio culturale, dissipa le risorse economiche e accentua le disuguaglianze sociali.
In questo contesto, nel 1962, anno della nazionalizzazione dell’industria elettrica e dell’istituzione dei Piani per l’Edilizia Economica e Popolare, nacque la proposta di riforma urbanistica firmata da Fiorentino Sullo, allora ministro dei lavori pubblici di area democristiana. Il testo fu elaborato da una Commissione composta dai massimi urbanisti del tempo insieme a giuristi e sociologi. Si partiva da una riflessione sulle lacune della Legge Urbanistica del 1942, che affidava alle pubbliche amministrazioni un ruolo di semplice controllo dell’attività edilizia, senza reale possibilità di iniziativa.
L’articolo 1 del disegno di legge fissava il principio fondamentale del rapporto tra pianificazione urbanistica e programmazione economica “L’indirizzo e il coordinamento nazionale della pianificazione urbanistica si attuano nel quadro della programmazione economica nazionale e in riferimento agli obiettivi fissati da questa, anche per quanto riguarda i programmi generali e di settore, dei servizi e delle opere pubbliche di interesse nazionale, interregionale e regionale…”
Il principio cardine della legge era l’espropriazione da parte del Comune delle aree incluse nei piani particolareggiati:
“Nell’ambito del piano particolareggiato il Comune promuove l’espropriazione, anche per zone, secondo i tempi determinati dalle necessità delle fasi di attuazione: a) di tutte le aree inedificate, comprese quelle facenti parte del patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici; b) delle aree già utilizzate per costruzioni se l’utilizzazione in atto sia sensibilmente difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato. Il Comune espropria anche quelle aree inespropriate che successivamente alla approvazione del piano particolareggiato vengono a rendersi edificabili per qualsiasi causa.” (art. 23)
“Per le aree che prima dell’approvazione del piano regolatore generale non avevano destinazione urbana secondo i piani approvati, l’indennità di espropriazione è determinata considerando il terreno come agricolo e libero da vincoli di contratti agrari. Per le aree inedificate già comprese in zona urbanizzata, la indennità di espropriazione è stabilita in base al prezzo di cessione dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo stabilito dal Comitato dei Ministri di cui all’art. 1. Per le aree che prima dell’approvazione del piano regolatore generale avevano destinazione urbana ed erano coperte da costruzioni, l’indennità di espropriazione è ragguagliata al valore venale della costruzione. Si applica, tuttavia, il comma precedente qualora l’indennità in base ad esso calcolato risulti più favorevole al proprietario. In ogni caso l’indennità è fissata prescindendo da qualsiasi incremento di valore che si sia verificato o possa verificarsi direttamente o indirettamente per effetto della progettazione, dell’adozione e dell’attuazione del piano regolatore generale…” (art. 24).
Riconosciute e versate le indennità di esproprio, il Comune, acquisite le aree, avrebbe provveduto alla dotazione dei servizi primari, per poi cedere il diritto di superficie mediante asta pubblica, ad un prezzo composto dall’indennità di esproprio e dai costi sostenuti per la dotazione dei servizi:
“Il Comune… provvede alle opere di urbanizzazione primaria… cede in proprietà allo Stato e agli altri enti territoriali, le aree destinate ad utilizzazione pubblica. Il diritto di superficie sulle aree destinate a edilizia residenziale viene ceduto a mezzo di asta pubblica, salvo che le aree non vengano richieste per il perseguimento dei loro fini istituzionali, entro termine da stabilire con legge regionale, da enti pubblici che operano nel settore della edilizia e da società cooperative che abbiano per scopo la costruzione di alloggi economici o popolari per i propri soci e salvo che esse siano richieste per utilizzazione industriale.
Ai fini della determinazione del prezzo di cessione si sommano, per ogni zona preveduta dall’art. 23, 1° comma: le indennità di espropriazione dell’intera zona e gli interessi relativi, il costo delle opere di urbanizzazione e di quelle per lo sviluppo dei servizi pubblici, da effettuarsi nel perimetro della zona, nonché una quota per spese generali. Il totale è ripartito sulla superficie delle aree destinate all’edificazione e il quoziente costituisce il prezzo della cessione o, in caso di asta, la base di questa” (art. 26).
Purtroppo la proposta di legge fu bloccata da un esteso fronte di opposizione, dentro e fuori il Parlamento, mentre Sullo, oggetto di diffamazione a mezzo stampa, finì per essere isolato dai suoi stessi compagni di partito. Da allora nessuno in parlamento ha più avanzato proposte per un’organica riforma urbanistica nazionale.
Fino agli anni settanta nelle città ha prevalso una forma di rendita marginale, dovuta al progressivo spostamento dei confini urbani e alla valorizzazione delle aree periferiche di nuova espansione sottratte all’uso agricolo. I costruttori, spesso d’accordo con gli amministratori più influenti e spregiudicati, acquistavano preventivamente i terreni agricoli destinati a sfruttamento edilizio.
Negli anni ottanta, a seguito della forte diminuzione dell’incremento demografico e della progressiva terziarizzazione dell’economia, le plusvalenze urbane assunsero la forma della cosiddetta rendita differenziale, connessa con le nuove funzioni terziarie e caratterizzata dal cambio di destinazione d’uso degli immobili nelle zone centrali delle città: gli edifici industriali ormai dismessi, quelli ad uso pubblico o i palazzi storici, venivano rifunzionalizzati per banche, assicurazioni e servizi specializzati. Gli industriali italiani, inizialmente preoccupati per la diminuzione dei profitti, trovarono enormi vantaggi nello sfruttamento della rendita differenziale. Un primo effetto di tale tendenza fu l’espulsione dei cittadini con redditi medio-bassi dai centri storici.
Dopo la crisi immobiliare dei primi anni ’90, si è avuto un nuovo impressionante ciclo di valorizzazione immobiliare, interrotto solamente con la crisi dei mutui subprime nel 2007. Le stime del cresme parlano di un aumento del 40% della produzione edilizia residenziale nel periodo 1997-2006, mentre i valori immobiliari nelle maggiori città italiane sono quasi raddoppiati. Le finalità speculative ci appaiono più evidenti se consideriamo che nel periodo 2002-2010 la variazione media annua di popolazione residente in Italia si è attestata intorno allo 0,71% sul totale (Fonte: cresme). In questo periodo la rendita urbana, anche in forza dell’integrazione con strumenti tipici dell’ingegneria finanziaria, si è resa ancora più indipendente dalle ragioni dell’economia reale e dello sviluppo sostenibile. La città si è espansa in modo abnorme e irrazionale su scala territoriale compromettendo irrimediabilmente il paesaggio e dissipando crescenti risorse. Anche questa volta, come nei precedenti cicli di valorizzazione, le forze del mercato non sono state in grado di garantire l’accesso all’abitazione alle fasce medio-basse. I Comuni, sempre più in difficoltà nel dotare i nuovi insediamenti dei necessari servizi tecnici, sociali e infrastrutturali, sono stati costretti a cedere alle richieste dei privati che hanno ottenuto, con lo strumento dell’urbanistica contrattata, varianti urbanistiche in cambio del pagamento degli oneri di costruzione e del contributo per le urbanizzazioni.
Gli indici di incremento dei valori immobiliari hanno spesso superato il 300%, con punte del 500%: in alcuni casi si è costruito a 1200 €/mq per poi rivendere anche a 7000 €/mq, motivo per cui l’invenduto in Italia ha potuto raggiungere quote di 2-300 mila appartamenti senza che ciò comportasse perdite significative per i proprietari e gli istituti di credito.
L’illusione che la valorizzazione di immobili e capitali non debba mai arrestarsi e la speranza mal riposta che tutti possano prima o poi beneficiare di accumulazioni parassitarie, hanno modificato radicalmente il nostro modo di percepire la società, al punto che con difficoltà riusciamo a percepire gli aspetti patologici e antisociali dello sfruttamento delle rendite.
Per queste ragioni, l’Associazione Riconquistare la Sovranità fa propria la proposta di riforma del ministro Sullo, per la parte inerente gli articoli già richiamati.
Nel pieno rispetto della Costituzione (“La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”, art. 42, Cost.) con l’acquisizione preventiva delle aree divenute edificabili e la successiva concessione del diritto di superficie è possibile rimuovere le cause strutturali del meccanismo della rendita urbana. La proprietà dell’area, inoltre, consentirebbe ai comuni di giungere più facilmente all’esproprio, nel momento in cui emergessero nuove ragioni d’interesse generale.
Bisogna superare la lunga fase dell’urbanistica contrattata e restituire allo Stato il ruolo di attore dominante in sede di pianificazione urbanistica; salvaguardare gli interessi pubblici; liberare le autorità amministrative e gli urbanisti da interessi e pressioni settoriali, evitare le disuguaglianze tra i proprietari e contenere i costi dei servizi. (“Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata”, art. 44, Cost.).
Il terreno libero va considerato una risorsa limitata da tutelare; è pertanto necessario introdurre vincoli più severi al consumo dei suoli e ricostituire un sano ed equilibrato rapporto tra ambito urbano e ambito rurale.
L’Italia, dai tempi delle prime libertà comunali, ha rappresentato in tutta Europa un esempio equilibrato di crescita sostenibile, dedizione per il paesaggio e rigido controllo della forma delle città. È tempo di seguire la prospettiva di un completo recupero della nostra migliore tradizione urbana.
Gianluigi Leone (ARS Lazio) per “Associazione Riconquistare la Sovranità”
Perfetto
Sono stato per 11 anni dirigente della storica associazione nazionale di Tutela del patrimonio storico, artistico e naturale “Italia Nostra”. Per 8 anni sono stato segretario dello storico “gruppo urbanistica” della sezione romana di Italia Nostra: sezione presieduta fino alla morte dall’indimenticato Antonio Cederna. In quel gruppo ho avuto l’onore di coordinare architetti e urbanisti del calibro di: Italo Insolera, Leonardo Benevolo, Marcello Vittorini, Mario Ghio, Vittoria Calzolari, Antonio Tamburrino, Renato Nicolini, Giorgio Muratore, Manfredi Nicoletti e molti altri. Posso tranquillamente affermare che questo documento è nella migliore tradizione riformista (vera) e dell’interesse pubblico grantito dalla Costituzione italiana. Interesse tradito da anni da molti, troppi, politici, intellettuali e persino urbanisti che fino a qualche lustro fa, rivendicavano l’appartenenza a questa corrente di pensiero. E’ dunque per me, neosocio dell’ars nonchè “missionario” politico di questa cultura urbanistica, motivo della più grande sorpresa e soddisfazione vedere che queste idee sono già state fatte proprie da questa associazione. I mie complimenti vanno a Gianluigi Leone, estensore di questo documento così ben scritto e a tutti i soci che l’hanno scorso lo hanno approvato. Un motivo in più per sentirmi a casa!
Resta il fatto che la proprietà edilizia è diventata in Italia un realtà diffusa e fortemente frammentata; questa struttura della proprietà -che non è fatta di soggetti per cosí dire monopolisti, a parte le diverse forme in cui già ora lo è la mano pubblica, con i risultati che non hanno bisogno di essere argomentati per la loro evidenza e clamore, di sottoutilizzo, cattivo utilizzo e utilizzo a scopo riconducibile alla corruzione -stock immobiliare concesso a prezzi risibili a forme di vario clientelato-, come potrebbe questa diffusa struttura della proprietà fare fronte ad imposizioni fiscali che riducessero ulteriormente i margini di redditività ritraibili da beni a cui la crisi perdurante ha già inflitto rilevanti cadute di valore, ma anche altrettanto rilevanti deprezzamenti del mercato delle locazioni? I centri storici costituiscono un asset alquanto significativo del patrimonio nazionale (questo tutti lo riconoscono, almeno a parole), ma poco ci si preoccupa di come mantenerlo, non parliamo di renderlo efficiente (cioé piú adeguato ai requisito oggi necessari, energetici, strutturali…e mi fermo qui). Immaginiamo una trasformazione di tale assetto orientato ad accrescere la presenza della mano pubblica: si puó credere davvero che questo permetterebbe una migliore gestione del patrimonio immobiliare? I fatti parlano già abbastanza chiaro, tra disastro dei beni archeologici, cattiva gestione di tutto ciò che gravita nella sfera pubblica, per non parlare di quanto tempo e risorse saranno necessarie per risanare i territori colpiti da calamità di ogni specie e grado. Al di là delle teorie e delle illusioni degli urbanisti nostrani che si ripetono senza mai cambiare da 50 anni, c’è qualche idea su come affrontare la realtà ? In assenza di ragionevoli ripensamenti diretti a non fustigare il reddito immobiliare, francamente non vedo come sia possibile mantenere a livelli accettabili un patrimonio che -secondo l’usuale retorica italica ormai stracciata dai fatti- ‘tutto il mondo ci invidia’ (ma poi torna rassicurato nel suo, dove si sta meglio, e se cerco una casa in affitto, la trovo, perchè c’è più dinamica di mercato)! W gli espropri e vedremo crollare sempre più palazzine e vestigia di altri tempi, che ormai sono come quelle bagasce delle quali non importa nulla a nessuno. Infatti, si moltiplicano i ‘grandi interventi’ nelle prime periferie urbane, che sono l’ultima e più violenta espressione dell’urbanistica contrattata, voluta qualche decennio fa del resto da quegli stessi urbanisti di cui sopra (per calcolo politico dei loro ben più pelosi e agguerriti dirigenti di partito)…ennesimo gattopardismo nostrano!
Ricollegandomi al commento di andreavivit, esprimo una riserva circa il principio generale che ispira i progetti di RI. Ricondurre allo Stato mediante riforme normative le attività che lo Stato stesso ha dismesso, di fatto abdicando alla sua funzione più propria – il perseguimento del bene pubblico – è teoricamente un progetto meritorio e condivisibile. Ma quel processo di abdicazione non si è risolto in un semplice cambio di regole, ma si è accompagnato al progressivo scadimento di competenza tecnica e politica e di sensibilità deontologica dell’intera classe del pubblico impiego, dai vertici dirigenti in giù. E nella grettezza e nell’incompetenza prosperano la malafede e gli opportunismi. Come rieducare questa classe al principio fondante dello Stato democratico – perché nessuno vuole, spero, un’economia di stato di sovietica memoria – cioè il perseguimento del bene pubblico nel rispetto della libertà privata?