SCUOLA – Documento programmatico che sarà sottoposto all'Assemblea nazionale dell'ARS
In questo scenario la scuola così com’è costa troppo, ed è una spesa superflua per i fini da conseguire. Occorre una scuola che costi molto meno e che prepari i cittadini ad essere buoni consumatori dei prodotti tecnologici: non è necessario che conoscano i meccanismi scientifico-tecnologici che stanno dietro agli oggetti usati. Chi serve invece per tali fini verrà preparato in scuole speciali. La selezione per accedere a queste scuole la faranno le stesse scuole private e le imprese. Non ha senso dunque continuare a dissipare denaro nell’istruzione pubblica. Il mercato è buono e gli interventi dello Stato sono cattivi. Deregulation, liberalizzazioni, privatizzazioni, sono le parole d’ordine.
Sono queste le idee che ispirano prima la ERT e successivamente la Commissione Europea. L’idea madre, l’ideologia fondatrice della politica educativa comune, è riassunta così nella maggior parte dei documenti della CCE: “L’Unione Europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza”. Da quel momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un “obiettivo strategico” principale: aiutare l’Europa a “diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica e duratura” (CCE 2001).
I cardini principali del discorso educativo europeo si riassumono in poche parole: competenze, formazione permanente, ICT (Information and Communication Technology), deregolamentazione, rapporti con le imprese, rapporti con il territorio, diversificazione, armonizzazione, mobilità, cittadinanza, lotta all’esclusione. Le autorità europee dichiarano che il ruolo principale della scuola non è più trasmettere saperi “socratici” basati sul dialogo e sul senso critico, ma è quello di “dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un miglior adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro” (CCE 1997).
Al Summit di Lisbona del 23 e 24 Marzo 2000 si invocano le nuove competenze di base relative alle tecnologie dell’informazione, alla comunicazione nella lingua madre e nelle lingue straniere, a una cultura tecnologica, allo spirito d’impresa e alle attitudini sociali; ove si precisa che non si tratta di discipline come le abbiamo conosciute a scuola, bensì di “vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari”. Lo stesso documento chiarisce quali siano le competenze sociali: “fiducia in sé stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi”, e le competenze relative allo spirito d’impresa: “capacità dell’individuo a superarsi nel campo professionale”, “attitudine a diversificare le attività d’impresa”, formazione permanente.
Il ritmo sfrenato dei cambiamenti costringe i lavoratori a cambiare frequentemente il posto di lavoro o l’impiego ed esige da essi una grande capacità di adattamento piuttosto che qualifiche specifiche: c’è “bisogno di lavoratori più adattabili, sempre più in grado di svolgere mansioni diversificate” (cellula Eurydice 1997). La competenza più richiesta, più citata e sempre all’attenzione di tutti i documenti è la capacità di imparare per tutta la vita: “Il concetto di educazione e di formazione permanente non ha più una portata restrittiva; deve ormai trattarsi di regolare l’offerta e la partecipazione, quale che sia il contesto di apprendimento pratico considerato” (CCE 2000-b). Questo adattamento dei sistemi educativi “a un mondo in cui l’educazione e la formazione si perseguono durante tutta la vita” è “la più importante delle sfide con cui tutti gli Stati membri si confrontano” (CCE 2001).
2. Negli stessi anni ’90 le dottrine neoliberiste avevano conquistato partiti e politici italiani inducendoli a intervenire sulla scuola con un’opera di graduale privatizzazione avviata da Berlinguer, Bassanini e dai pedagogisti di regime i quali riformarono la scuola per adeguarla alle esigenze del mercato. Così il ministro Berlinguer presentava la sua riforma in base “all’esigenza di ciascun individuo di cambiare più volte la sua attività nel corso dell’esistenza, di fronte a queste necessità la scuola non doveva più porsi con la pretesa di consegnare saperi, abilità e capacità definitive, ma puntare invece sullo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere problemi.
Perciò occorreva che il sistema dell’istruzione perdesse la caratteristica di struttura fortemente piramidale, dove ogni ciclo di studio aveva funzione fondamentale propedeutica rispetto ai cicli successivi, per assumere una struttura modulare in cui ogni segmento identificasse precisi obbiettivi da raggiungere e consolidasse risultati spendibili in termini culturali, scientifici e professionali. La capacità di apprendimento doveva essere potenziata e sviluppata per favorire la crescita di autonomie individuali capaci di RICONVERSIONE PROFESSIONALE e di apertura alle evoluzioni dei saperi nel corso dell’intera vita” (Quadro di riferimento e linee guida della riforma”, Luigi Berlinguer, 14 gennaio 1997).
Sembra di leggere i documenti della ERT e della Commissione Europea.
Poiché il sistema nazionale della pubblica istruzione era considerato di per sé negativo (centralistico, rigido, burocratico, soffocatore di creatività), i riformatori inventarono la scuola dell’autonomia: una scuola destrutturata, cioè privata di ogni rigidità di sistema e resa liquida. Fu detto che il sistema nazionale della Pubblica Istruzione non veniva smantellato ma solo declinato in maniera pluralistica e flessibile, con le autonomie che avrebbero dovuto rispondere a principi generali fissati dallo Stato. Nella concretezza invece il congegno dell’autonomia fu pensato fin nei minimi dettagli per dissolvere il sistema nazionale e per saldare i singoli istituti scolastici a interessi locali e privati. L’inganno fu reso possibile grazie alla confusione tra la sostanza della riforma e gli espedienti semantici con cui fu legittimata: furono stabilite situazioni oggettivamente regressive, ma furono denominate con termini dalle risonanze positive (libertà, autogoverno dei professori, rispondere a nuovi bisogni, adattarsi a nuove esigenze, sviluppare competenze…..), nascondendo dietro a nobili finalità (successo formativo, una scuola per tutti….) direttive che nella concreta attuazione negano quanto affermato a parole.
I mezzi di comunicazione, gli intellettuali, gli opinionisti accreditarono l’uso di questo linguaggio distorto e diffusero nell’immaginario collettivo l’idea di una riforma promotrice di libertà e di autonomia. Gli insegnanti, per i quali la riforma volle significare cascate di circolari ministeriali pedanti e dettagliate, condizionamenti extraculturali, prescrizioni capillari formalistiche ed invadenti, si trovarono schiacciati tra una riforma tanto magnificamente accolta e decantata e la mole senza precedenti di nuove prescrizioni.
Nel precedente sistema nazionale di Istruzione Pubblica i singoli istituti scolastici erano articolazioni settoriali e locali che venivano dirette per discipline, contenuti e finalità dall’organismo centrale. La modernizzazione dell’Italia, condotta a tutto campo dal ceto politico della sinistra di governo, ha significato per la scuola la sostituzione di quel sistema con un modello in cui ogni singolo istituto scolastico progetta sé stesso. Questa forma di autonomia implica tante scuole in competizione fra loro per procacciarsi utenti e risorse. La competizione fra scuole avrebbe dovuto svolgersi sul Piano dell’Offerta Formativa (POF): nella realtà si svolge sul terreno delle risorse, delle immagini, delle lusinghe per attrarre “utenti”, degli intrecci con i poteri territoriali, quindi sul piano utilitario, strumentale, dell’immagine, cioè in una dimensione che non ha niente in comune col linguaggio e lo spirito della cultura.
La riforma doveva “razionalizzare” le risorse: nella pratica ha accorpato gli istituti, ha tagliato le classi, ha ridotto gli organici. La competizione in questa realtà produce effetti a dir poco indecorosi: lo spettacolo delle scuole che si fanno concorrenza a colpi di spot è triste e umiliante. Gli insegnanti e i presidi che sostengono l’innovazione e la necessità della pubblicità per attrarre studenti e per non far perdere posti di lavoro, e che premono sulla necessità di presentare progetti per attirarsi gli studenti-clienti, esprimono lo squallore in cui germina la competizione: lo squallore in cui gli insegnanti sono precipitati.
Storicamente l’insegnante non è mai stato titolare di un alto reddito, ma è sempre stato titolare di una sua specifica dignità sociale grazie alla sua cultura. Sotto questo aspetto la caduta di stile e di dignità avviata dalla scuola dell’autonomia e della competizione non potrà essere ripagata da nessuno scatto di stipendio che, pure, per colmo d’ironia sarà invertito. È evidente che la vera cultura, che serve per acquisire valori, identità, orientamento, spirito critico, non serve alle finalità dei riformatori. È altrettanto evidente che la competizione ha spinto le scuole a garantirsi iscrizioni proponendo insegnamenti immediatamente spendibili sul mercato, quindi per esempio l’inglese turistico e commerciale, i corsi d’informatica e tutto ciò che può dare visibilità nel mondo del lavoro. La riforma dell’autonomia ha innescato anche un dibattito sulla scelta dell’insegnante e sull’abrogazione del valore legale del titolo di studio.
Fin quando è esistito il sistema della scuola pubblica nazionale gli insegnanti venivano selezionati per mezzo di titoli di studio uguali per tutti, diplomi con valore legale e concorsi nazionali. Invece la scelta degli insegnanti da parte del singolo istituto riguardava esclusivamente le scuole private che erano prevalentemente le confessionali cattoliche. Dopo lo smantellamento del sistema pubblico la scelta riguarda anche la scuola dell’autonomia. È evidente che se ogni istituto si dà un POF si deve dare degli insegnanti funzionali a quel POF, quindi ogni scuola pubblica si comporta come quelle private, deve reperire finanziamenti e scegliere insegnanti da proporre agli studenti-utenti. E le famiglie degli studenti-utenti ora cominciano già a chiedere di poter scegliere loro gli insegnanti dei propri figli, così come scelgono il pediatra.
La società individualista riconosce come arbitraria una selezione pubblica degli insegnanti; gli individui sembrano aver smarrito la coscienza di appartenere a una collettività. La società dei consumatori riconosce legittimità, invece, a relazioni sociali di natura privatistica , da più parti si comincia a chiedere di abolire il ruolo, il valore legale del titolo di studio e i contratti di lavoro collettivi e di sostituirli con curriculum personalizzato (che certifichi il grado di impiegabilità) e con rapporti e contratti individuali. Come si fa oggi anche nella Pubblica Amministrazione che stipula un contratto di lavoro individuale con l’impiegato. Prima della riforma la scelta dell’insegnante avveniva come “selezione” del corpo insegnante con il sistema dei concorsi: il concorso costringe a studiare, crea un ventaglio pluralistico di assunzioni, evita parcheggi prolungati, immette nella scuola persone piene d’entusiasmo. Nella realtà effettuale il concorso come sistema di selezione degli insegnanti è stato abolito e non sostituito per 10 anni lasciando spazio al precariato e ad assunzioni clientelari.
Con la riforma i presidi diventano di colpo Dirigenti Scolastici il cui compito è quello di assicurare la gestione unitaria dell’istituzione, delle risorse strumentali e finanziarie e dei risultati del servizio. Vengono assegnati loro poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane, sono titolari delle relazioni sindacali, possono avvalersi di docenti da loro individuati a cui delegare specifici compiti. Viene assegnato loro anche “l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie” mentre la scuola viene adeguata alle logiche di risparmio aziendale. Nel DPR 233/98 (Bassanini) si legge che “Il numero dei dipendenti del comparto scuola deve risultare alla fine del 1999 inferiore del 3% rispetto a quello rilevato alla fine dell’anno 1997”. Il che ha significato 21.000 posti di lavoro in meno. Il taglio era richiesto dalla volontà di privatizzare la scuola, per renderla alla pari di un’impresa economicamente sana e quindi appetibile. In quest’ottica il Ministero della Pubblica Istruzione cambia il nome in Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR).
Con la riforma viene introdotto il comitato per la valutazione del “prodotto educativo”, che si avvale dei “crediti e debiti” che nascono in vista di una carta europea extrascolare e dell’educazione permanente preconizzata dall’ERT; contemporaneamente nascono altri strumenti e funzioni per il divertimento dei pedagogisti che li inventano: PEI, POF, funzioni obbiettivo, crediti e debiti, demagogici statuti delle studentesse e degli studenti, valutazioni spersonalizzate con sistemi di tipo anglosassone (i test INVALSI) che tendono a sopprimere il momento fondamentale della valutazione orale e ad avvicinarci alle esperienze europee e americane.
La riforma destruttura tutto. L’asse portante della scuola, che erano i contenuti, si sposta ai metodi. Sono colpite tutte le discipline, anche la storia, che si riduce a cronaca della storia recente, con gli strumenti di studio che devono essere integrati da immagini, repertori di dati, filmati, disegni, divulgazioni, ricostruzioni visuali, dibattiti, gite, conferenze, uscite…. tutte cose piacevoli “per attrarre gli studenti”. Sparisce la storia antica, la storia delle radici, senza di essa ogni disciplina umanistica e scientifica non ha più le basi. Anche la matematica deve essere insegnata in modo che “bambini e ragazzi non perdano il piacere di matematizzare, che non siano demotivati da eccessi di formalismo e siano aiutati da insegnanti e compagni a pensare a percorsi alternativi di soluzione e ad utilizzare in positivo le dinamiche degli eventuali errori” (“Sintesi Maragliano” 1997). Sorte simile tocca anche alla Fisica.
Anche i testi scolastici si devono adeguare:”Testi essenziali per gli studenti e più ampi e documentati per i docenti” (ma solo quelli che insegnano a usare le nuove tecnologie). La riforma spinge la didattica ad investire su due fronti: l’orientamento e la proposta formativa. Nel primo caso la scuola deve spingere “al superamento della cultura del posto (fisso) a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni, della flessibilità, di nuove forme di lavoro, della preparazione all’autoimprenditorialità; nel secondo caso, ritiene urgente che la scuola ponga mano all’impianto metodologico dello studio e dell’impegno umano: occorre cioè che utilizzi e valorizzi le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro , insieme alle capacità di collaborazione, di pianificazione. A questo scopo va valorizzato il RAPPORTO fra SCUOLA, COMUNITÀ LOCALI, MONDO PRODUTTIVO” (ibidem).
Secondo le intenzioni dei riformatori la scuola deve preparare ai voleri dell’impresa neoliberista educando alla sottomissione e all’accettazione dell’esistente. La riforma di Berlinguer ottenne all’epoca anche il parere favorevole di Confindustria, che spinse a far presto e delegò una sua associazione a definire la politica dell’impresa nei riguardi della scuola.
La scuola dell’autonomia è, in sostanza, la scuola “delle conoscenze, delle competenze e delle capacità” che devono presiedere a tutti i giudizi e certificazioni, “dei crediti formativi riconoscibili”. Orientarsi nella distinzione di questi termini è alquanto incerto dato che, pur avendoci scritto un’imponente letteratura alimentata da organismi internazionali, commissioni, Istituti e intellettuali tutti alla ricerca di un criterio che fornisse una definizione univoca, alla fine esso manca (e tutto ciò è quasi surreale). Si può solo prendere atto che la scuola ha abdicato alla sua specifica finalità della formazione culturale dei giovani per quest’altra: certificare le loro competenze, senza però dire che cosa si intenda con questo. Tuttavia la certificazione di queste non meglio certificate competenze, la valutazione, la comparabilità e la spendibilità delle suddette sono diventati i principali problemi per gli insegnanti, occupano una gran parte del loro tempo libero (che non è libero) e sottraggono energie psichiche, quelle energie che un docente spende nella relazione con gli allievi, in qualsiasi ordine e grado di scuola, come pochi altri lavori esigono.
Questo complesso di riforme non sono il prodotto di un’esigenza culturale, nel senso proprio del termine, come lo erano state quelle di Casati e Gentile. Qui si è orientata la scuola verso le richieste del mercato. Si è smantellato l’esistente senza creare niente di realmente nuovo. Non si è sostituito un nuovo modello al vecchio, non c’è più scuola rispetto al precedente. Indirizzare la scuola verso le richieste del mercato significa porla nel mercato, cioè trasformarla in azienda. Nascono perciò delle contraddizione grottesche, per esempio: come inserire nel mercato la storia e la filosofia?
Per definizione la scuola è cultura, stabilità, mediazione, luogo di trasmissione della memoria attraverso cui la comunità definisce sé stessa ed elabora il linguaggio necessario agli individui per un reciproco riconoscimento. Per definizione l’azienda è invece meccanismo del profitto, instabilità strutturale, è assenza di memoria, è immediatezza. L’insegnante che si sente vivere in questo sistema, schiacciato da incombenze inutili, da negazione di ogni valore e distruttività di ogni innovazione, matura un disagio che si manifesta in avvilimento, stanchezza, voglia di andarsene, malinconia, depressione. Nessun compromesso è possibile. O lo si accetta o lo si manda a quel paese.
Tanto più che nelle riforme che si sono succedute fino ad ora gli insegnanti , e più quelli preparati, sono considerati una massa eccedente e, per quanto poco pagati, sempre troppo costosi. Bastano insegnanti raccogliticci chiamati direttamente dalla scuola e pagati ancora meno solo quando sono ‘usati’. Tanto, nella scuola dell’autonomia, fatta di film, disegni, testi divulgativi scritti con abilità narrativa capaci di divertire, la scuola modello di riferimento è la situazione scolastica americana, dove gli insegnanti della scuola pubblica, assolutamente dequalificata, sono privi di titoli specifici, dove mancano i fondi, le classi sono sovraffollate, i curricoli sono diversi da scuola a scuola, e disomogenei gli esami finali, dove meno del 3% degli allievi è in grado di frequentare i corsi universitari per più di 2 anni. Le eccellenze vengono da scuole private che costano anche 40 mila dollari l’anno, eppure gli imprenditori vogliono ancora più fondi dallo Stato. Proprio dal 1996 gli Stati Uniti avevano iniziato a togliere fondi alla scuola pubblica per dare gli “cheques education” alla privata, su suggerimento della Lehman Brothers che voleva iniziare ad investire nel settore molto promettente della scuola (proposte simili sono state avanzate e approvate anche in Italia).
3. Negli ultimi 13 anni il processo di destrutturazione della scuola statale è progredito; ormai la scuola è pubblica solo formalmente; l’autonomia ha trasformato ogni singolo istituto in modello privatistico-aziendale, al contempo essa ha trasformato la scuola privata in scuola pubblica spostando progressivamente il costo del sistema a carico delle famiglie, trasformando i tagli alla scuola di Stato in stanziamenti per quella privata. Durante i governi di Berlusconi la riforma Moratti rese quasi completamente interne le commissioni dell’esame di Stato attuando la parità tra scuola pubblica e privata.
Inoltre i tagli operati nella scuola dal ministro Tremonti, ora per finanziare il salvataggio di Alitalia dall’acquisizione di Air France (che avvenne comunque poco dopo), ora per ridurre gli sprechi sbandierati dalla Gelmini e per la tanto proclamata (a parole) meritocrazia, servirono in realtà a finanziare il default delle aziende di Stato decotte. Idea questa ripresa anche dal governo Monti insieme all'”austerità espansiva”, cioè i tagli alla spesa pubblica che vengono utilizzati, come se fossero risparmi, per finanziare la crescita, anziché per migliorare e potenziare l’intero comparto dell’Istruzione. Il governo Monti non ha salvato gli ultimi 300 milioni di euro dall’ultima legge del patto di stabilità, taglio che mette a rischio la sopravvivenza di 20 atenei. Fra il 2008 e il 2012 sono stati tagliati 10 miliardi di euro dal bilancio di scuola e Università. Di cui 8 miliardi e 500 milioni alla scuola (il 10,4% complessivamente), e 1 miliardo e 300 milioni all’Università. Nella spending review del governo Monti sono stati previsti altri tagli per il 5,2% all’intero sistema dell’Istruzione.
La Commissione Europea ha pubblicato recentemente uno studio che quantifica in percentuali, ma non in cifre assolute, la misura dei tagli all’istruzione dei governi di centrodestra e di quello tecnico. In esso viene riconosciuto che sono state soppresse 100 mila cattedre in tutti i gradi di scuole, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. L’Italia è tra quei Paesi europei che hanno tagliato di più negli anni della crisi, insieme a Grecia, Ungheria, Lituania e Portogallo. I più penalizzati dai tagli sono stati gli insegnanti ridotti nel numero e nella retribuzione. Il loro numero è calato dell’11,1%; invece in Germania è aumentato del 13%, in Finlandia del 12,9% e in Svezia del 21,9%. Per le retribuzioni, congelate o ridotte, siamo fra i tre peggiori: Grecia (20% in meno) e Slovacchia (15% in meno).
La riduzione degli insegnanti e dei bilanci ha prodotto l’accorpamento di scuole e corsi di laurea, per ragioni esclusivamente di bilancio mascherate da una propagandata efficienza. La stessa Commissione Europea riconosce che “La riduzione degli insegnanti in Italia è una conseguenza e un risultato programmato di una riforma, la legge 133/2008, approvata nell’estate 2008, prima del consolidarsi della crisi” (Eurydice). Stessa tempistica e riforma della Gran Bretagna. L’esito delle politiche di austerità, e in particolare la riduzione degli investimenti nell’istruzione, è stato di abbattere il PIL di 7 punti, di bruciare 600 mila posti di lavoro e far lievitare la piaga del precariato usato dalla pubblica amministrazione per trattare i giovani docenti in un modo vergognoso con danni che ricadono su tutte le componenti della scuola.
PROPOSTE
Alla deriva aziendalista della scuola l’ARS oppone un rifiuto deciso, proponendo innanzitutto l’abolizione dell’art. 21 della legge Bassanini. L’ARS dichiara inoltre la propria ostilità alla “parità scolastica”, nella convinzione che lo Stato debba garantire alla scuola pubblica tutti i finanziamenti necessari senza accollarsi oneri che non gli spettano (art. 3 della Costituzione). L’abolizione dell’autonomia e della parità scolastica rappresentano le condizioni necessarie al conseguimento dello scopo essenziale dell’istruzione: non la formazione di consumatori spiritualmente anestetizzati e abbrutiti ma l’educazione di uomini liberi, vivi, aperti a ogni sollecitazione culturale.
Da questi punti fondamentali deriva l’impegno dell’ARS a favore di:
- -incremento della spesa scolastica per edilizia e organici e parallelo ridimensionamento dei grandi istituti;
- -rafforzamento degli organi collegiali;
- -mantenimento della durata degli studi a 13 anni;
- -affermazione del principio della centralità del gruppo classe e della continuità didattica;
- -uniformità a livello nazionale di concorsi, programmi, discipline e loro contenuti;
- -scuola di qualità in tutti i suoi indirizzi e giusta severità degli insegnanti;
- -mantenimento del valore legale del titolo di studio;
- -reclutamento del personale mediante concorso pubblico o graduatoria provinciale e non per chiamata diretta del capo d’Istituto.
Anna Biancalani
Michele Maggino
Giampiero Marano.
Siamo intellettualmente debitori per le posizioni espresse nel presente documento, ad alcuni esperti del mondo della scuola e dell’università quali, tra gli altri, Marino Badiale, Fabio Bentivoglio, Massimo Bontempelli, Roberto Renzetti.