Le imprese pubbliche (documento approvato dall’Assemblea nazionale del FSI – 24 settembre 2017)

LE IMPRESE PUBBLICHE

INDICE

PARTE PRIMA: ANALISI

  1. Premessa
    1.a. Complessità e vastità del tema
    1.b. Il ruolo dello Stato nell’economia
  2. Lineamenti di storia dell’Impresa pubblica in Italia
    2.a. La costituzione dell’IRI durante il fascismo
    2.b. L’Impresa pubblica nel dopoguerra
    2.c. L’IRI del boom economico
    2.d. L’IRI nella crisi petrolifera ed economica degli anni ‘70
    2.e. Le privatizzazioni
  3. Valutazioni dell’agire dell’Impresa pubblica
    3.a. Occupazione
    3.b. Investimenti nel Sud
    3.c. Relazioni industriali
    3.d. Ricerca e sviluppo
    3.e. Mezzi finanziari
    3.f. Difesa dal capitale straniero e conseguenze fiscali

PARTE SECONDA: PROPOSTE

PARTE PRIMA: L’ANALISI

1. Premessa

1.a. Complessità e vastità del tema

Affrontare il tema dell’Impresa pubblica in Italia significa non solo fare i conti con un importante pezzo di storia della nostra nazione, ma rendere giustizia ai principi costituzionali, contenuti nella parte economica della nostra Carta fondamentale. Significa altresì rendere onore alle illuminate classi dirigenti, costituite da veri e propri eroi e martiri – uno per tutti, Enrico Mattei – che hanno saputo, nel corso della storia, impostare e dirigere un modello di economia che ha fatto scuola in tutto il mondo e che in molti hanno cercato di copiare, senza peraltro raggiungere i medesimi risultati. Parlare dell’Impresa pubblica in Italia significa, in qualche modo, parlare dell’Italia stessa, alla luce di ciò che l’Impresa pubblica ha rappresentato, soprattutto nell’era Repubblicana.

La complessità e la vastità del tema, che abbraccia principalmente storia, economia e politica, consentono a questo documento di rappresentare solo il punto di partenza dello studio che le belle menti che animano il Fronte Sovranista Italiano dovranno coltivare negli anni a venire.

1.b. Il ruolo dello Stato nell’economia

Il punto fermo da cui partire è senza dubbio rappresentato dall’importanza che la Costituzione Repubblicana affida all’agire pubblico. Negli artt. 41, 42 e 43 si consuma il dettato, oggi purtroppo disatteso, del primato dello Stato sull’agire del privato. L’utilità sociale non deve soccombere in alcun modo rispetto agli interessi privatistici, né come iniziativa economica, né come proprietà, sia essa immobiliare, agraria, ma soprattutto, come sottolinea l’art. 43, dei mezzi di produzione.

Ciò, quindi, di cui si può discutere è la forma che assume l’iniziativa economica dello Stato, ma non la sostanza dell’agire pubblico nell’economia.

Avremo quindi da scegliere tra Nazionalizzazione di un settore, come la storia italiana ha voluto nel 1962 per l’energia elettrica costituendo l’ENEL, oppure tra l’agire dello Stato in forma di imprenditore, ben rappresentato, a diversi livelli, dalla cosiddetta “Formula IRI”, ma mai, come italiani rispettosi della propria Carta Costituzionale, si potrà accettare che lo Stato venga messo da parte per far posto al capitale del privato cittadino senza anima e il più delle volte senza patria, né bandiera.

Purtroppo, da più di trenta anni ormai, una classe dirigente non all’altezza del proprio compito, prona agli interessi di potenti gruppi internazionali, disattendendo completamente i principi costituzionali, ha distrutto il patrimonio industriale pubblico, messo in piedi con il talento e la dedizione di chi l’ha preceduta e con la fatica degli italiani che hanno lavorato nelle imprese dell’IRI e degli altri Enti ed aziende Pubbliche.

2. Lineamenti di storia dell’Impresa pubblica in Italia

2.a. La costituzione dell’IRI durante il fascismo

Il discorso di Mussolini a Udine del 20 settembre 1922, nel quale l’economia fascista si affidava al liberismo economico: “Vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore, basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato”, ha dovuto fare i conti con la crisi del 1929 e le sue conseguenze.

Si pervenne così nei primi anni ‘30 alla costituzione dell’IRI con lo scopo di salvare il settore bancario e industriale italiano, facendo intervenire lo Stato nell’economia del Paese.

E così avvenne: si introdusse una rigorosa separazione tra credito ordinario e credito industriale, venne sbrogliata la matassa dei rapporti di debito e credito tra imprese, banche, Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Le banche, spogliate dei pacchetti azionari delle imprese finanziarie e industriali, diventarono pubbliche entrando nel controllo azionario dell’IRI. Per quanto riguarda l’intervento nell’industria, già nel 1937 “l’Italia poteva vantare lo Stato con maggiore proprietà industriale in Europa dopo l’Unione Sovietica”.1

Tale intervento pubblico, secondo i piani del fascismo, doveva essere temporaneo, ma con la legge del 1937, l’IRI divenne ente permanente, anche e soprattutto in ragione dell’intervento bellico.

L’IRI ebbe la fortuna di essere guidato da personalità eccellenti come Alberto Beneduce, Donato Menichella, Oscar Sinigaglia, Guglielmo Reiss Romoli e Raffaele Mattioli, molti dei quali sopravvissero all’era fascista in ragione del loro valore umano.

2.b. L’Impresa pubblica nel dopoguerra

L’industria pubblica italiana uscì dal secondo conflitto mondiale praticamente distrutta: la capacità produttiva venne ridotta fino al 99% in alcuni settori. Gli impianti produttivi vennero bombardati dagli americani o smontati dai tedeschi e portati in Germania. La flotta della FinMare passò da 221 navi a 16. È stato stimato che i danni diretti causati dalla guerra all’industria pubblica ammontino complessivamente a 12.000 miliardi.2

In questo scenario si inserì il dibattito, in seno alla commissione economica per l’Assemblea Costituente, su cosa fare dell’IRI e dell’Impresa pubblica in generale.

I liberali che volevano disfarsi del “carrozzone pubblico” vennero messi in minoranza e si decise di non liquidare la “creatura fascista”.

La commissione economica per l’Assemblea Costituente spinse per un efficace controllo istituzionale sulla gestione dell’IRI, al quale si rispose in prima battuta nel 1948 con un nuovo statuto dell’IRI nel quale si affermò che la missione dell’Ente “è quella di gestire le partecipazioni da esso possedute”, mentre riconobbe al Consiglio dei Ministri nella sua interezza la possibilità di “stabilire nell’interesse pubblico l’indirizzo generale delle attività dell’Istituto”.3

Nel 1950 venne formata una commissione interministeriale presieduta da Ugo La Malfa che stabilì la necessità di un ministero delle Partecipazioni Statali; venne altresì stabilita una ripartizione organica delle responsabilità: 1) responsabilità politica e di indirizzo e coordinamento economico finanziario generale attribuita al Ministero delle Partecipazioni Statali; 2) responsabilità di indirizzo tecnico, amministrativo e finanziario del complesso delle partecipazioni affidata all’IRI; 3) responsabilità di indirizzo tecnico, amministrativo e finanziario del settore assegnata alle finanziarie; 4) responsabilità di gestione industriale affidata alle singole imprese pubbliche.

Un’ulteriore commissione di studio presieduta dal democristiano Orio Giacchi stabilì che: “L’IRI non è più un Ente con il solo scopo di gestire le partecipazioni e le attività patrimoniali, ma un fautore dello sviluppo economico del paese, in vista del quale promuove nuove tecniche produttive, nuove forme nelle relazioni di lavoro, nuovi mezzi per l’espansione del commercio estero, mentre si adopera per il progresso dell’apparato produttivo del Mezzogiorno”.

Con la legge 1589 del 22 dicembre 1956 venne istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali.

Nell’ambito del riordino istituzionale dell’IRI, vennero costituite nuove finanziarie: Finmeccanica (1948), Finelettrica (1952), Fincantieri (1959) e nel 1953 vengono dati i natali all’ENI.

In pochissimi anni lo Stato imprenditore incise nell’economia nazionale per “l’80% nella produzione cantieristica, il 57% nella telefonia, il 45% nella siderurgia, dal 20 al 45% in diversi comparti della meccanica, il 25 % nelle intermediazioni bancarie e nell’energia elettrica. Nel 1950 l’IRI ha 220.000 dipendenti”.4

Così facendo si crearono le condizioni per il miracolo economico italiano.

2.c. L’IRI del boom economico

Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? È la compagnia aerea dell’IRI. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo come la Michelangelo, la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’IRI. Noleggia una macchina veloce ed elegante, come un’Alfa Romeo? È dell’IRI. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’IRI ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (IRI) e il cemento della Cementir (IRI). Uscito dalla città, prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’IRI. Si ferma per pranzare in un Autogrill? È dell’IRI.

Dopo pranzo telefona a qualcuno nella sua città usando la prima teleselezione integrale del continente? È una linea SIP, cioè dell’IRI. Arrivato a destinazione deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Commerciale o il Banco di Roma o il Credito Italiano) è anch’essa dell’IRI“.5

Questo slogan coniato dal capo del servizio pubbliche relazioni dell’IRI rende perfettamente l’idea di cosa fosse diventata l’Impresa pubblica, evidenziando la vastità dei suoi piani di intervento nell’economia italiana.

Il presidente dell’IRI Petrilli in un discorso del 21 maggio 1963 afferma: “Il sistema delle partecipazioni statali ha condizionato la crescita del nostro sistema economico, incidendo sull’offerta quantitativa e qualitativa di beni e servizi di importanza strategica, in termini di crescente produttività e stimolandone la domanda in termini di riduzione dei prezzi”.6

La “formula IRI” mette d’accordo il pubblico e i piccoli risparmiatori: la holding capogruppo, l’IRI, è a totale partecipazione statale, mentre le finanziarie di settore e le centinaia di aziende da queste controllate sono società per azioni, che vedono nel loro capitale la presenza di milioni di piccoli azionisti privati. Così ogni lira investita dallo Stato ne attira dieci investite dai privati, con un grandioso effetto di moltiplicatore di risorse per lo sviluppo dell’industria e del risparmio nazionale.

Lo scenario che si presenta nel trentennale dell’IRI (1964) è il seguente: Il gruppo controlla 130 aziende, ha 280.000 dipendenti, un fatturato di 25.600 miliardi, di cui poco meno di un decimo va all’export; un programma di investimenti per il quadriennio 1963-1966 di 33.000 miliardi di cui il 40% destinato al mezzogiorno; un attivo di bilancio di gruppo che vede in utile tutte le aziende siderurgiche, quelle del settore telefonico, le banche, l’Alitalia e alcune aziende minori; in leggera perdita sono solo le aziende meccaniche e quelle cantieristiche.7

Nel 1962 si giunge anche alla nazionalizzazione dell’energia elettrica costituendo l’ENEL; un importante traguardo raggiunto dal governo di centro sinistra che Riccardo Lombardi commenta così: Abbiamo gettato un bastone tra le ruote dell’economia capitalistica”.

La nazionalizzazione comportò il pagamento degli indennizzi ai soggetti privati e pubblici che operavano nel settore; l’IRI ricevette indennizzi per le proprie aziende e li utilizzò, oltre che per rafforzare i settori in cui già operava, per investire nel settore alimentare e nella grande distribuzione: Il settore alimentare costituisce un caso interessante delle logiche operative adottate dalla finanziaria, e quello, forse, in cui è meglio ravvisabile una strategia organica di sviluppo. In termini generali, investire nella modernizzazione di un settore che di avanzato aveva ben poco, intensificandone anche le spinte di integrazione a valle nel settore distributivo, non era errato. Il progredire della società italiana sotto il profilo dei consumi aveva significato anche l’affermazione di nuovi stili di acquisto, compreso l’avvento di forme di grande distribuzione che si contrapponevano alla struttura sino a quel momento polverizzata del comparto; struttura che rifletteva anche una conformazione alquanto frammentata dal lato dell’offerta, ove le iniziative più rilevanti erano quasi tutte intraprese dal capitale estero, a testimonianza della scarsa forza competitiva delle imprese nazionali. La Sme, inoltre, faceva il proprio ingresso nel settore alimentare sulla base anche di un altro fattore, il medesimo che suscitava le attenzioni del capitale straniero, ovvero un’apparente, diffusa debolezza del capitalismo familiare italiano, almeno di quello che popolava il comparto. Se si guarda alle acquisizioni effettuate dalla Sme sin dal principio, non si può non cogliere questa funzione «surrogatoria». Il primo investimento rilevante è del 1965, con l’acquisizione del 7,5% del capitale della Cirio: all’epoca ancora nelle mani dei discendenti del fondatore, l’azienda richiedeva investimenti e ristrutturazioni per mantenersi competitiva, investimenti che gli azionisti privati non erano inclini a sostenere. La partecipazione Sme, giustificata anche dalla localizzazione prevalentemente meridionale delle strutture produttive dell’azienda, crebbe progressivamente, sino a superare il 50% del capitale a inizio anni Settanta. Poco dopo la Cirio, nel 1968, è la volta della Motta, che dalla morte del fondatore Angelo Motta, a inizio anni Cinquanta, era stata guidata da un fidato manager, Antonio Ferrante. Alla sua scomparsa, l’assenza di un gruppo dirigente in grado di prendere le redini di quello che era col tempo divenuto uno dei principali gruppi italiani nel comparto dolciario e della distribuzione alimentare aveva creato le condizioni per un avvicendamento nella compagine azionaria. L’acquisto, nel 1970, del 50% del capitale dell’Alemagna fu poi volto ad impedire che quest’ultima cadesse nelle mani di qualcuno dei gruppi stranieri che da tempo effettuavano acquisizioni, anche rilevanti, nel settore, come ad esempio nel caso della Barilla, finita in mani statunitensi nel 1970. Nel 1971 la Sme entrò nella Star, questa volta in funzione di vero e proprio sostegno al capitale privato, dato che le redini dell’azienda rimasero saldamente nelle mani della famiglia Fossati. Nel 1974 toccò all’Alimont, società del gruppo Montedison, al cui interno si trovava un marchio prestigioso come Pavesi. Parallelamente agli investimenti nelle strutture produttive, la finanziaria faceva ingresso nel settore della grande distribuzione, ancora agli inizi in un paese in cui il rapidissimo incremento nei consumi individuali era avvenuto, come si è accennato, sulla base di un apparato distributivo in cui prevalevano i piccoli e piccolissimi esercizi. Nel 1966 la Sme rileva la Società romana supermercati, fondata nel 1960 dallo stesso nucleo imprenditoriale che, associato a capitale statunitense, aveva dato origine qualche anno prima alla Supermarkets italiani, che si andava consolidando ed espandendo al Centro-Nord. Con l’acquisizione della Motta, altri supermarket si aggiunsero a quelli della Romana, e il tutto confluì nella Generale supermercati (GS). Contemporaneamente, il controllo su Motta, Alemagna e Pavesi portò la Sme a restare l’unico protagonista nella rete di distribuzione autostradale, presto riunita nella Autogrill Spa. La leva delle acquisizioni non solo consentì alla Sme di divenire in tempo brevissimo il principale gruppo alimentare del paese, e uno dei principali nella distribuzione, ma mise a disposizione del capitale pubblico anche una serie di spazi di manovra per l’effettuazione di strategie d’investimento nelle regioni meridionali, verso le quali vennero, infatti, indirizzati gli ampliamenti e le diversificazioni delle attività delle società acquisite”.8

Alla fine degli anni ‘60 il disegno costituzionale che voleva il dirigismo economico dello Stato appariva compiuto.

2.d. L’IRI nella crisi petrolifera ed economica degli anni ‘70

Gli anni ‘70 si aprono con forti e diffuse crisi monetarie, dovute allo sganciamento del dollaro dal cambio aureo e con una crisi petrolifera senza precedenti, causata nel 1973 dalla guerra del Kippur.

Sono anni difficili per l’economia internazionale e le ripercussioni arrivano anche in Italia.

Si provvede a contrastare la congiuntura adottando politiche monetarie espansive9 e procedendo tramite l’IRI all’acquisizione di aziende private in difficoltà tramite le finanziarie Efim ed Egam. Questi ultimi interventi, necessari a sopperire all’inadeguatezza del mercato e del capitale privato, che il più delle volte esso stesso premeva per l’intervento pubblico, erano volti a preservare l’industria manifatturiera nazionale e, soprattutto l’occupazione.

In effetti, la risposta alla crisi fu eccellente, considerato che i soli effetti furono trasmessi dall’economia reale alla finanza, con l’aumento dell’inflazione per un periodo limitato all’assorbimento dello shock esterno da parte del sistema.

Sul finire degli anni ‘70 agli shock economici e monetari si aggiungono però quelli politici e giudiziari. Le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, l’omicidio Moro e l’ingresso dell’Italia nello SME, sono alcuni degli episodi che segnano il cambio di passo della politica italiana e che vedono l’inizio del progressivo e costante degrado della classe politica italiana, a cui per forza di cose consegue un decadimento delle figure ai vertici delle imprese pubbliche. Nel 1982 viene nominato Romano Prodi Presidente dell’IRI: inizia la lunga agonia delle privatizzazioni.

2.e. Le privatizzazioni

Gli anni ‘80 si caratterizzano per un cambio di rotta nella politica industriale pubblica italiana. Le parole chiave risultano essere dismissioni e privatizzazioni. Si comincia nel 1986 con la (s)vendita della gloriosa Alfa Romeo alla FIAT.

Il processo di Europeizzazione, che mira a far adottare agli stati membri regimi liberali, accelera il processo di privatizzazione. Emblematica risulta la pressione esercitata dal commissario europeo Karel Van Miert sulla questione debitoria dell’Efim che si conclude con l’accordo sottoscritto da Beniamino Andreatta nel 1993 che il giornale La Repubblica commenta così:Bruxelles “VISTO che risultato? Una svolta per l’economia italiana”. Queste parole ce le fa scivolare nell’orecchio, tra due porte, visibilmente soddisfatto, il direttore generale della concorrenza alla Commissione della Cee, Claus Dieter Ehlermann, tedesco, considerato uno dei funzionari più brillanti degli ottomila di Bruxelles. A cosa si riferisce? Alla conferma e ratifica definitiva dell’accordo Andreatta-Van Miert sul futuro assetto azionario delle imprese pubbliche in Italia. Testo a prima vista astruso, che parla di “congelamento dei debiti”, art. 2362 del Codice civile, “monitoring a priori” e disposizioni del genere, ma che sotto questo linguaggio tecnico cela una novità quasi rivoluzionaria: il Governo italiano s’è impegnato a non essere mai più in futuro proprietario esclusivo di alcuna impresa, e quindi non coprirà più con la sua garanzia illimitata i debiti delle imprese pubbliche. Finita per sempre l’epoca in cui non soltanto l’Efim ma anche l’Iri o l’Eni potevano raccogliere miliardi a volontà sui mercati finanziari (nazionali ed anche internazionali) grazie alla garanzia dello Stato. Non solo: ma il governo si impegna tassativamente con la Cee a diminuire l’indebitamento delle partecipazioni statali agli stessi livelli delle imprese private. Processo irreversibile Si capisce quindi perché Ehlermann parli di una svolta, ed il commissario europeo di nazionalità italiana, Raniero Vanni d’ Archirafi, – con il linguaggio un po’ aulico che come ex-diplomatico si porta dietro come una seconda pelle – abbia dichiarato: “Questo è un caso che va al di là di un mero esame di conformità di un aiuto di Stato, per investire l’insieme del processo di rinnovamento del sistema economico italiano, processo che alcuni arrivano a dichiarare rivoluzionario”. Ed abbia definito l’accordo Andreatta-Van Miert come il segnale dello “smantellamento del sistema delle imprese pubbliche, che ha fatto il suo tempo”, aggiungendo: “Sono lieto che l’approvazione finale dell’accordo contribuisca a rendere questo processo irreversibile”. All’inizio l’accento era stato posto sui debiti dell’Efim poiché così dettava l’urgenza e le banche premevano. Ma in definitiva questo caso Efim ha offerto l’occasione per risolvere globalmente il problema delle partecipazioni statali e delle responsabilità dello Stato nei loro confronti, e per risolverlo in un senso liberale dando un taglio definitivo all’assistenzialismo sistematico”.10

Ciampi, Andreatta, Monti, Prodi e Draghi, aiutati da altre figure minori, celebrano nel corso degli anni ‘90 il funerale della gloriosa Impresa pubblica italiana, al quale partecipa gran parte del popolo italiano istupidito da una propaganda martellante, che ha fatto perdere la memoria di ciò che ha rappresentato l’Impresa pubblica in Italia.

Per dare la misura di come vennero condotte le privatizzazioni, si riporta un commento di Giuseppe De Rita risalente al febbraio 2006: “la STET è stata venduta per 16mila miliardi con Ciampi ministro, Draghi direttore generale del Tesoro e Prodi Presidente del Consiglio: tre mostri sacri di cui oggi non si può parlar male. Colaninno due anni dopo l’ha pagata a debito 60mila miliardi e due anni dopo ancora lo stesso Colaninno ha rivenduto per 120mila miliardi a Tronchetti, che avendola pagata a debito oggi sta con l’affanno perché può solo ripagare i debiti”.11

Al danno delle privatizzazioni si aggiunse la beffa delle svendite.

3. Valutazioni dell’agire dell’Impresa pubblica

3.a. Occupazione

Oggi, a mio avviso, punto fondamentale di tutta l’azione di governo è un solo problema: il riassorbimento della disoccupazione. È indispensabile che l’Italia cessi di considerare una disgrazia nazionale l’eccesso di manodopera, che costituisce, invece, una forza economica di prim’ordine, assai più importante delle miniere di ferro e di carbone che hanno gli altri Paesi; una manodopera abile, sobria, intelligente come la nostra rappresenta la fortuna di un Paese, ma bisogna saperla utilizzare e non sciupare come finora si è fatto da noi”.12

Queste parole, pronunciate nel giugno 1953 dal padre della siderurgia dell’IRI, Oscar Sinigaglia, rappresentano lo spirito con cui l’Impresa pubblica ha affrontato la sfida del progresso sociale attraverso la creazione di nuova occupazione. L’IRI nel 1978 arriva a dare lavoro a 534.200 italiani. Più di mezzo milione di persone è occupato direttamente nelle imprese pubbliche, La progressione di crescita occupazionale negli anni è la seguente: 1960-1963 + 44,3%, di cui 12,1 al sud; 1964-1967 +8.1% di cui 7,1 al sud; 1968-1971 +84,3% di cui 39.6 al sud. Altro dato impressionante che spiega l’importanza dell’Impresa pubblica è quello dell’occupazione addizionale creata dall’Impresa pubblica in riferimento al dato complessivo nazionale: ebbene l’IRI nel quadriennio 1970-1974 ha creato, da solo, il 60% di occupazione in tutto il territorio nazionale.13

Guardando questi dati possiamo esprimere un giudizio positivo dell’agire pubblico in relazione al perseguimento della piena occupazione e ci sentiamo di affermare che l’IRI nel suo operato, ha reso onore al dettato dell’art. 1 della nostra Costituzione: “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

3.b. Investimenti nel Sud

Nel dopoguerra il tema dello sviluppo del mezzogiorno entra nel vivo dell’agenda politica. Viene costituito lo Svimez nel 1946 a cui fa seguito l’istituzione della Cassa del mezzogiorno nel 1950, il cui obiettivo è lo sviluppo delle infrastrutture nel mezzogiorno.

L’IRI è fin da subito impegnato con gli investimenti che vedono la creazione di nuovi poli industriali al sud, che tendono a crescere con il varo della legge 634 del 1957, la quale impone di collocare il 60% di nuovi investimenti e il 40% di quelli complessivi al sud.

Viene quindi costruito il quarto centro siderurgico a Taranto, lo stabilimento dell’Alfasud a Pomigliano, gli impianti della Selenia (elettronico) in Campania, quelli della Sgs-Ates (microelettronico) in Sicilia e quelli della Sit-Siemens in Campania, Abruzzo e Puglia. Inoltre, come già ricordato precedentemente, gli indennizzi ricavati dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica vengono investiti nel sud nel settore agroalimentare. I dipendenti del gruppo nelle regioni meridionali passano dalle 20.000 unità del dopoguerra alle 100.000 unità del 1970. Il PIL pro capite del mezzogiorno passa da 2860€ del 1951 a 9691€ del 1971. Il divario della produttività si riduce dal 40% del 1957 al 25% del 1975. “Per la prima volta nella storia unitaria nazionale la differenza fra Centro-Nord e Mezzogiorno diminuisce considerevolmente, e in una fase di intenso sviluppo nazionale”. 14

3.c. Relazioni industriali

A seguito dell’istituzione del Ministero delle Partecipazioni Statali viene creato l’Intersind, l’organismo rappresentativo delle imprese pubbliche nelle relazioni industriali con i sindacati. La cosa non viene digerita bene da Confindustria che teme un addolcimento delle relazioni industriali in favore dei lavoratori. Cosa che in effetti avvenne: grazie infatti alla “contrattazione articolata”, un sistema capace di contemperare le esigenze del sindacalismo operaio con quelle della programmazione industriale, l’Intersind conclude contratti nazionali avanzati che portano tra l’altro alla progressiva eliminazione delle “gabbie salariali”. L’Intersind viene definito non a caso da Confindustria “l’anello debole della catena”.

Emblematica, perché traccia la linea dell’agire pubblico, la dichiarazione del ministro del Lavoro, democristiano, Carlo Donat Cattin nel 1971: “Gli imprenditori devono prendere coscienza delle ragioni che provocano la conflittualità permanente e rendono poco credibile la loro azione nei confronti della controparte; si tratta in primo luogo dei modi con i quali è stato esercitato per un secolo il potere imprenditoriale e in secondo luogo ad adattarsi al nuovo rapporto di forza che vede nelle grandi linee il rifiuto di una condizione di subalternità”.15

3.d. Ricerca e sviluppo

Il tema della ricerca e sviluppo viene coltivato dall’impresa pubblica dopo il 1950. È ben chiaro ai manager delle aziende pubbliche che per crescere c’è bisogno anche di innovazione e l’innovazione si ottiene tramite la ricerca. Vengono quindi finanziati studi che portano l’IRI ad investire in nuovi campi come l’elettronica, l’informatica e l’elettronucleare, ma non mancano i centri studi anche nei settori tradizionali come la siderurgia che nel 1973, nel CSM -Centro Sperimentale Metallurgico conta 200 ricercatori.

Tale agire conduce le aziende dell’IRI a ridurre dal 27% del 1966 all’8% del 1976 le spese per l’importazione della tecnologia mediante le licenze.

3.e. Mezzi finanziari

L’Impresa pubblica aveva principalmente 3 modi con cui poteva finanziarsi: il primo e il più utilizzato era rappresentato dall’emissione di obbligazioni convertibili in azioni con garanzia dello Stato; il secondo era rappresentato dal fondo di dotazione che rappresentava il contributo dello Stato come contro-prestazione agli oneri impropri cui doveva farsi carico l’Impresa pubblica per perseguire gli obiettivi imposti dal governo e che esulavano dal carattere imprenditoriale del suo operare; il terzo era il ricorso al finanziamento bancario, usato molto di rado.

3.f. Difesa dal capitale straniero e conseguenze fiscali

Abbiamo visto come nel settore alimentare l’intervento dello Stato abbia scongiurato l’acquisizione delle aziende dal capitale straniero.

L’impresa pubblica ha tra sue priorità quella della difesa dell’industria nazionale. Difendersi dalle acquisizioni straniere significa principalmente preservare posti di lavoro e know-how, ma significa anche trattenere gli utili in Italia e poterli tassare.

PARTE SECONDA: PROPOSTE

Le considerazioni sopra svolte ci conducono a ritenere che il modello dell’Impresa pubblica italiana ha funzionato e si è rivelato vincente nel periodo in cui la classe dirigente lo ha sostenuto.

Il dirigismo economico dello Stato, nella giusta combinazione tra soggetto monopolista e imprenditore in concorrenza con i privati, ha permesso di realizzare il principio contenuto al primo articolo della nostra Costituzione: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Il dirigismo economico dello Stato è fondato sul lavoro e lo ha ampiamente dimostrato.

È per questo motivo che il FSI-Fronte Sovranista Italiano, intende attingere dalla storia dell’Impresa pubblica italiana le proprie proposte di ricostruzione e potenziamento dell’industria nazionale che verteranno quindi all’applicazione dei principi Costituzionali e al ritorno al dirigismo economico dello Stato attraverso nazionalizzazioni di settori strategici, controllo diretto di aziende e partecipazione azionarie di minoranza in tutti i settori dell’economia avendo cura alla ecosostenibilità del proprio agire.

Andrea Franceschelli per “Fronte Sovranista Italiano”

 


1 Rosario Romeo – “Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961”

2 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI”

3 Ministero dell’Industria e del Commercio – “L’Istituto per la ricostruzione industriale – IRI, vol. II, Progetti di riordinamento” , Torino 1955, pag. 53 e seguenti

4 Franco Amatori – “Storia dell’IRI 2. Il miracolo economico e il ruolo dell’IRI” pag.9

5 Franco Schepis citato in Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag. 100

6 G. Petrilli – “Lo Stato imprenditore: validità ed attualità di una formula, Bologna 1967 pag. 61 e seguenti.

7 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag 106

8 Franco Amatori – “Storia dell’IRI 2. Il miracolo economico e il ruolo dell’IRI” pag.102

9 Guido Carli – “Considerazioni finali” per il 1971: “Ci siamo posti e ci poniamo l’ interrogativo se la Banca d’ Italia avrebbe potuto o potrebbe rifiutare il finanziamento del disavanzo del settore pubblico astenendosi dall’ esercitare la facoltà attribuita dalla legge di acquistare titoli di Stato. Il rifiuto porrebbe lo Stato nella impossibilità di pagare stipendi ai pubblici dipendenti e pensioni alla generalità dei cittadini. Avrebbe l’apparenza di un atto di politica monetaria; nella sostanza sarebbe un atto sedizioso, al quale seguirebbe la paralisi delle istituzioni“.

11 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag 365

12 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag 106

13 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag 208

14 Franco Amatori – “Storia dell’IRI 2. Il miracolo economico e il ruolo dell’IRI” pag.39

15 Carlo Troilo – “1963 -1982 I venti anni che sconvolsero l’IRI” pag 111

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4 risposte

  1. 29 Settembre 2017

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