Il territorio e la frontiera
di Luciano Del Vecchio (ARS Emilia Romagna), da Appello al Popolo
Oggi il capitalismo è essenzialmente speculativo e finanziario, de-territorializzato; vive e prospera al di fuori e al di sopra dei territori, su cui nei secoli precedenti produceva merci e profitti, sfruttandone le risorse. Il capitalismo otto-novecentesco aveva fame di “terre” da sfruttare e si sviluppava in colonialismo e in imperialismo. Oggi ha fame di stati sovrani da svuotare e diluire nei mercati finanziari globali. Il territorio serve al capitale per delocalizzare impianti produttivi e stoccare merci, senza dover sfruttare altra risorsa locale che non sia quella umana. Ma, non appena l’operaio reclama i suoi diritti, deve continuare a ri-delocalizzarsi. Perciò è sul territorio che il capitalismo moderno, al contrario di quello ottocentesco, non riesce o non ha più bisogno di radicarsi. La forza del moderno capitalismo è dunque l’evanescenza territoriale, una sorta di lievitazione dal territorio, che potrebbe rivelarsi anche la sua debolezza, il suo tallone d’Achille.
Il territorio è geo-grafia, agro-nomia, metron e limes, misura e confine, frontiera, dogana per merci e vincolo per capitali, regola per i servizi e cittadinanza per le persone, è sovranità. Il territorio è lo Stato e uno Stato è il suo territorio; è tutto ciò che infastidisce, disturba e ostacola il capitalismo globale, assoluto e totalitario che non tollera né regole né vincoli, perché è assenza di misura. Dunque per combattere efficacemente il capitalismo sfrenato servono avamposti territoriali: gli stati sovrani appunto, che esistono, persistono, consistono, insistono su territori; esercitano la loro sovranità su un elemento dove il turbocapitalismo finanziario arretra, perché non è il suo “terreno”, visto che il suo dominio si esercita incontrollato tramite flussi di denaro smaterializzato e transazioni liquide, evanescenti, telematiche, de-territorializzate, nella totale irrilevanza delle frontiere. “I mercati finanziari, i veri detentori del potere, sono ovunque e in nessun luogo” (De Benoist).
Invece, è sul territorio che popoli e nazioni si insediano, si radicano, si costituiscono, fondano le proprie istituzioni e tracciano le frontiere a guardia e a difesa della loro identità, cultura, lavoro, diritto e ricchezza di vita dall’avidità devastante della finanza internazionale. È lo Stato che mantiene unito, tutela e perpetua il popolo, mentre è il mercato finanziario, avulso e scollegato dall’economia reale della produzione e del lavoro, che lo disfa e lo dissolve nei flussi incontrollati di denaro e di merci. Ed è per questo che gli stati sovrani sono oggi le istituzioni più credibilmente anticapitaliste, rimaste a difesa e a protezione dei ceti medi e popolari dall’aggressione sferrata dalla superclasse apolide, che si annida negli organismi sovranazionali economici, commerciali e finanziari. Lo Stato e la sua sovranità è la questione politica fondamentale per chi è interessato a una lotta antisistemica. I gruppi e i movimenti anticapitalisti, nazionali e internazionali, non hanno ancora riflettuto a fondo sull’essenza dello Stato moderno, che è stato sociale o non è Stato; prigionieri di una visione anarchico-ottocentesca della lotta di classe che contrapponeva i proletari ai borghesi, sono bloccati in una sorta di cecità ideologica che li spinge ancora a considerare erroneamente lo Stato un’istituzione “borghese”, oggi che il conflitto sociale contrappone il mondo della finanza a quello della produzione. Ma non può così definirsi uno stato moderno che nasca da una costituzione sociale-democratica e pluriclasse, che obbliga a darsi, se vuole conservare la sua sovranità, una politica economica e sociale, e dunque a intervenire sulla produzione, sul commercio, sul credito, sui salari, cioè a regolare i movimenti di merci e di soldi. “Questo relativo disinteresse verso l’organizzazione, il funzionamento e le istituzioni dello Stato, è talvolta motivato con l’argomento che la realtà della globalizzazione ha reso inefficace e obsoleto il potere dello Stato-nazione tradizionale. Si tratta però di un argomento che è facile rovesciare: è probabile che nessuno, nei vari movimenti anti-sistemici, abbia l’ingenuità di ritenere la “globalizzazione” un dato di natura, una realtà sorta per inevitabile necessità”. (Ripoliticizzare la decrescita, di M. Badiale, F. Tringali – Fonte: il-main-stream).
La visione ideologica ottocentesca che prevedeva la distruzione dello Stato, si incontra oggi con la visione globalista, che immagina il processo storico muoversi ineluttabilmente dal peggio al meglio e dalla barbarie al progresso; promessa che si è rivelata un inganno, visto che negli ultimi trent’anni di progressivo indebolimento dello Stato abbiamo osservato il movimento inverso. Entrambi le concezioni rappresentano lo Stato come il “vecchio”, il retaggio del passato, che va disfatto, a meno che non assuma – bontà ordoliberista – il ruolo di esattore fiscale per conto e a garanzia delle loro banche, e quello di reprimere le reazioni popolari (scioperi, manifestazioni) alle crisi sistematicamente indotte da mercato e moneta unica. Per il resto, lo Stato sarebbe ormai un’istituzione inadeguata alle sfide della storia, una fase superata da un avviato processo di sfrenata globalizzazione, che riduce i confini nazionali a puri concetti geografici.
Dissolte dal mercato finanziario extraterritoriale, le frontiere non fermerebbero più nulla; esisterebbero ancora solo come linee geometriche; prive di ogni rilevanza politica, non sarebbero più segno visibile della sovranità dello Stato. Non avrebbe più importanza la conoscenza dello spazio geografico e culturale ma quella dei flussi finanziari. La propaganda globalista diffonde questi luoghi comuni di recente formazione come “fatti compiuti”, realtà assodate, come sviluppi naturali, ineluttabili e irreversibili della “naturale” globalizzazione. Tuttavia alcuni recenti avvenimenti politico-militari sembrano smentirli e indurre a riconsiderare il valore delle frontiere non solo geo-morfologiche, ma anche linguistico-culturali. Saranno storia e geografia a mettere prima un freno e poi un blocco alla globalizzazione economico e finanziaria a ideologia liberista? Si obietterà che storia e geografia sono soltanto pretesti, discipline utili soltanto a suggerire argomenti strumentali a sostegno di logiche di puro potere e dominio geopolitico, ma resta il fatto che sono per primi i popoli (come in Crimea) a non lasciarsi ingannare e a costringere i potenti a intervenire a salvaguardia di fattori riconosciuti preminenti rispetto a quelli economico-finanziari, militari e geo-politici. Questi interessi avrebbero la stessa forza se non fossero sostenuti e motivati dal dato storico, geografico, culturale espresso dai popoli?
La cancellazione dello Stato e dei suoi confini è il progetto dell’Unione europea, che attua inventandosi macro ed euroregioni, non meno finte del finto europarlamento, sulla base di accorpamenti di aree appartenenti a stati confinanti, sulle quali lo Stato non dovrebbe più esercitare l’autorità e il suo governo, ma consegnarle alla governance di interessi privati finanziari, produttivi e di servizi: governance, mistura di pubblico e privato, che farebbe riferimento politico e amministrativo, non più agli stati delle regioni artificiosamente aggregate, ma direttamente alla commissione di Bruxelles. Dentro il generale disegno di frantumazione e dissoluzione degli stati, l’Unione europea sostiene e agevola movimenti e gruppi indipendentisti e secessionisti che, molto aggressivi contro gli stati nazionali, non si pronunciano mai – sintomatico – sui Trattati europei.
Della frontiera occorre dunque riscoprire il significato positivo di freno e limite al caos globale della finanza anarchica. Se gli stati non possono controllare i mercati, i flussi di capitali e gli strumenti del credito che si muovono liberamente sulle borse mondiali, possono presidiare i territori e su di essi controllare la circolazione delle merci, dei servizi e delle persone, e qualsiasi altro diretto dispiegarsi della globalizzazione. Ed è sul controllo del territorio che la globalizzazione sarà fermata. Ogni fronte di resistenza e di liberazione si attesta su una frontiera, conditio sine qua non si riconquista la sovranità politica comprensiva di tutte le altre sovranità statuali. È la frontiera che consente a un popolo di costituirsi, di fondare la sua civiltà e il suo diritto. Come non sono da minimizzare, e meno che mai disprezzare o deridere, le paure e le angosce collettive suscitate dalla sensazione di estraniamento e di “spaesamento” davanti alla soppressione delle frontiere territoriali, politiche e culturali, così non è consentito sottovalutare il valore della frontiera ignorando i suoi effetti fondativi di storiche e plurisecolari civiltà.