Piero Valerio, curatore del blog Tempesta Perfetta, aderisce all'Associazione Riconquistare la Sovranità

Piero Valerio

AGIRE ATTIVAMENTE SUL TERRITORIO PER UNA NUOVA CULTURA DEL PANE E DEL LAVORO

 
La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.” (Elio Vittorini, editoriale sul primo numero de “Il Politecnico” uscito il 29 settembre del 1945)
 
Non so per quale motivo, dopo aver partecipato ad un convegno organizzato da Reimpresa e dall’ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità), relazionato dal professore di diritto nonché presidente dell’ARS Stefano D’Andrea, mi sono venute subito in mente le parole di Vittorini, che per quanto riferite ad un periodo storico molto diverso dal nostro (ma mica tanto e ne parleremo dopo) rimangono ancora attuali. Domenica scorsa ad Alcamo, io ho assistito ad uno spaccato molto vivido e pregnante della nuova cultura che vorrei si diffondesse presto in Italia. Una cultura che non parla più per astratti concetti, per “ismi”, per categorie ideologiche o ideologizzanti, per guelfi o ghibellini, per destra o sinistra, ma che si occupi soltanto del pane e del lavoro e dei modi in cui in questo benedetto paese possano tornare di attualità tutti i temi riguardanti il reddito e la dignità dei suoi cittadini. Non con il solito inefficace e improduttivo buonismo di facciata dei partiti, dei sindacati e dei politicanti mainstream, invocando in modo confuso e a margine politiche attive per il lavoro come se fosse un corollario dovuto, ma andando oltre la superficie fino alla radice del problema e mettendo questi argomenti al centro e nel primo capoverso di qualsiasi nuova agenda politica. Perché senza lavoro non c’è reddito e senza reddito non solo non c’è più giustizia sociale, non c’è crescita economica, ma neppure libertà. E senza libertà si finisce in questo catafascio di società dell’assurdo in cui viviamo oggi.
 
Non è più un mistero che i partiti italiani autorizzati ad invadere impunemente il contesto televisivo e mediatico in generale parlano da anni di lavoro in modo molto demagogico, ideologico, fideistico quasi (flessibilità, competitività, produttività, arrivo messianico degli investimenti esteri), senza però analizzare con la necessaria coerenza, competenza e obiettività i fatti, i dati, l’evoluzione degli eventi, i numeri nudi e crudi che ci hanno portato fino al disastro attuale. La disoccupazione, dicono, è figlia delle mancate “riforme” avvenute in Italia, ma sono sempre troppo pochi quelli che hanno davvero il coraggio di spiegare alla gente quali siano i contenuti e le finalità di queste fantomatiche “riforme”. Perché per farlo dovrebbero andare pesantemente addentro le caratteristiche della gabbia deflazionistica che ci è stata costruita attorno con l’adesione alla moneta unica e al regime europeista. E’ inutile girarci intorno. Per quanto cercano di prenderla alla larga, chi vuole dire qualcosa di “serio” e di “vero” sul lavoro prima o dopo arriva sempre allo stesso punto: oggi se vuoi competere economicamente in Europa, l’unica strada è quella di tagliare i diritti e i salari dei lavoratori, perché la dottrina mistica del pareggio di bilancio non consente margini di detassazione e incentivi alle imprese e la rigidità di cambio non ammette recuperi di competitività per via monetaria. L’azzeramento delle conquiste economiche e sociali dei lavoratori era il vero obiettivo della trentennale campagna europeista di Restaurazione, segretamente o palesemente eterodiretta dai vecchi regimi oligarchici. Senza avere mai la certezza che questo porterà davvero ad un miglioramento del tessuto produttivo e dell’offerta, visto che se tutti i paesi percorreranno contemporaneamente questa strada, per aumentare le esportazioni e ridurre le importazioni, allora si infileranno in uno di quei tipici circoli viziosi senza via di uscita, di cui l’Unione Europea sta diventando il più grande produttore a livello mondiale. Potranno tutti i paesi europei esportare nei paesi limitrofi se nessuno è più disposto ad importare? Ecco per quale motivo lavoro ed eurozona oggi sono più che mai intrecciati e chi non riesce a cogliere questo legame è fuori dal mondo o palesemente in malafede. Per parlare di lavoro devi per forza parlare di Europa, o meglio di ciò che “vuole l’Europa” per l’Italia.
 
Non a caso il professore Stefano D’Andrea ha iniziato la sua relazione parlando della differenza e della confusione che esiste oggi tra le definizioni di Europa, Unione Europea ed eurozona, mettendo l’accento sul fatto che ognuna di queste realtà è indipendente dalle altre e può tranquillamente continuare ad esistere senza la necessità di accettare le successive sovrastrutture che ci sono state imposte per imbrigliare le singole costituzioni nazionali e mortificare i diritti dei cittadini e dei lavoratori. L’Europa è un continente geografico e politico che ha una storia molto antica e travagliata che prescinde dalla creazione dell’Unione Europea, così come l’Unione Europea è un accordo intergovernativo di cooperazione economica che prescinde dall’adozione di una moneta unica. Ed è proprio la decisione folle di aderire ad una moneta unica da parte dei 17 paesi dell’eurozona, contrastata fin dal lontano 1961 da tutta la comunità scientifica internazionale per evidenti ragioni di insostenibilità, l’unica vera anomalia innaturale che ha sconvolto i precedenti equilibri che si erano già solidamente e pacificamente stabiliti nel nostro splendido continente. Il percorso che dalla firma a Roma degli accordi sulla Comunità Economica Europea del 1957 ha portato fino al Trattato di Maastricht del 1992, presenta appunto un solo grande inspiegabile momento di discontinuità nella decisione di irrigidire il valore di cambio delle monete con la creazione dello SME nel 1979, che ha condotto poi all’introduzione dell’euro nel 1999, alla cancellazione finale di tutte le banche centrali nazionali e alla devastazione delle residue pretese di sovranità politica, economica, monetaria di ogni singolo paese. Quanto affanno e quanta approssimazione in questa scelta scellerata. Quanta fretta. Perché il cancelliere Kohl ha insistito tanto affinché l’Italia entrasse subito fin dall’inizio nell’area euro? Cosa voleva veramente da noi la Germania?
 
La risposta ormai la conoscono bene o male tutti quelli che hanno cercato di informarsi con rigore e disciplina perché è scolpita nei dati che circolano liberamente in rete grazie al lavoro di encomiabili economisti nostrani non allineati come Alberto Bagnai, Sergio Cesaratto, Gennaro Zezza, Emiliano Brancaccio e tanti altri. L’euro fa parte di un ampio progetto, collaterale e complementare alla sana ed equilibrata unione e cooperazione economica, che aveva come scopo principale quello di sancire la vittoria definitiva della logica della rendita finanziaria sulla cultura del lavoro. La logica della speculazione passiva dei banchieri e dei rentiers su quella della produzione attiva delle piccole e medie imprese e dell’intervento statale nell’economia, che in un normale contesto democratico dovrebbe servire a favorire un’equa redistribuzione dei redditi, la tutela dei diritti e la garanzia di erogazione dei servizi essenziali verso l’intera cittadinanza. Hanno vinto loro grazie ad una campagna mediatica di disinformazione e menzogna senza precedenti, che ha ridotto i popoli europei allo stato di barbarie e regressione culturale tipico della schiavitù: uno schiavo è tale perché non conosce i mezzi che potrebbero emanciparlo dalla sua condizione di alienazione e prigionia. Uno schiavo è tale principalmente per mancanza di conoscenza e informazione. E non dobbiamo quindi stupirci se oggi la maggioranza dei nostri concittadini sguazza nella confusione più assoluta, appoggiando ora l’uno ora l’altro partito di oligarchi che li ha condannati al declino, senza sapere che ogni loro plateale consenso o tacito assenso a questi sciacalli serve ad irrobustire le catene che hanno già ai piedi. I cittadini europei sono riusciti a bersi tutto di un fiato la medicina amara dall’austerità, credendo che eliminare posti letto negli ospedali pubblici e pagare sempre più tasse possa servire un giorno a farli vivere meglio. Ma non è pura idiozia credere che si possa vivere meglio rinunciando volontariamente ai servizi e ai mezzi che in qualsiasi epoca storica hanno avuto il merito di far vivere meglio le persone? Ma è mai possibile credere che essere ammassato su una barella in un corridoio di ospedale, in preda ai dolori lancinanti e all’indifferenza dei pochi inservienti rimasti in organico, equivalga a vivere meglio?
 
Eppure è così. Dobbiamo accettare il paradosso e il teatrino dell’assurdo come un dato di fatto ineludibile della nostra vita attuale. Dobbiamo vivere in mezzo ad un mondo di pazzi esagitati e masochisti giustificandoci e vergognandoci quasi per il nostro ostinato desiderio di normalità. Possiamo sgolarci a perdifiato per spiegare ai nostri concittadini, dati alla mano, che tutte le politiche europeiste e globaliste di libera circolazione dei capitali e dei beni spacciate per “modernità” sono state imposte per far arricchire chi vive di rendita finanziaria a dispetto di chi campa di lavoro, ma loro ti guarderanno sempre con sospetto, sgranando gli occhi, dicendoti che solo la politica che impone oggi sacrifici inutili in vista di un incerto, incertissimo futuro è “seria”, “sobria”, “equilibrata”, mentre chi lotta e si agita indefessamente per fargli avere oggi la certezza di un posto letto decente in ospedale per quando starà male e avrà bisogno di cure è solo un “populista”, un “demagogo”, un “qualunquista”. Di fronte alla follia e all’isteria collettiva, anche la più temeraria e imperterrita delle ragioni umane è costretta a soccombere e ad arretrare. A vivere in clandestinità. Ad isolarsi dalla massa e a combattere con le uniche e spuntate armi della rappresaglia rimaste. Facendo in modo che questa nuova lotta di Resistenza per un ritorno alla normalità in Italia possa continuare con pazienza, prudenza, costanza, casa per casa, quartiere per quartiere, città per città, per ricondurre alla ragione tante più persone possibile. Non si deve cercare di convincerli sulla base della corrente di pensiero più in voga o di moda, dell’”ismo” più accattivante del momento, ma ragionare e confrontarsi apertamente con loro sui principi fondanti della cultura del pane e del lavoro. Nient’altro che questo. Parlare di politica economica, monetaria, finanza, diritto, costituzione senza mai perdere di vista l’ago della bussola che deve essere sempre puntato sul pane e sul lavoro. E sul fatto che il prezzo del pane, la temutissima inflazione, non potrà mai impedire oggi a chi ha un reddito, un qualsiasi reddito, di comprare il pane (ricordiamo a tal proposito che quasi la metà della produzione alimentare mondiale finisce fra gli scarti dei rifiuti), mentre il problema sorge quando un’ampia fascia della popolazione non ha più un reddito, è disoccupata, o vede gran parte del suo salario evaporare soltanto per consentire agli sciacalli di vivere di rendita. Per questo motivo un tempo era nata l’idea sublime e nobile della democrazia: per dare il pane e il lavoro a tutti. Una cultura antica come il mondo che ad ogni modo, vada come vada, alimentata incessantemente dal fuoco sacro della verità, finirà per prevalere sulla cinica etica moderna della schiavitù senza dignità e decoro.
 
 
Le prossime elezioni di febbraio sono ormai un’occasione mancata o forse l’ultimo disperato arrembaggio concesso ai pirati mercenari della disinformazione e della depredazione dell’Italia, perché i tempi contingentati non hanno consentito alla ragione di dipanarsi con la necessaria autorevolezza, lasciando alla follia campo libero per sbizzarrirsi con le sue infinite paure e sciocchezze fondate sul panico immediato e sull’emergenza. Ma al prossimo appuntamento dobbiamo farci trovare preparati, organizzati, uniti pur nelle nostre innumerevoli molteplicità. L’Italia, con tutte le sue contraddizioni interne, non potrà resistere ancora a lungo ai saccheggi del Fiscal Compact, del MES e del settore bancario sempre più avido ed agonizzante, ed è a quel punto che la verità dei fatti farà il suo trionfale ingresso nel paese, per ribadire ancora una volta la sua supremazia su ogni altro aspetto della vita, compresi la ragione e la follia, la giustizia e la libertà. Ecco per quale motivo ho deciso di dare il mio sostegno diretto all’Associazione Riconquistare la Sovranità, per condurre insieme a loro questa decisiva battaglia di verità e resistenza sul territorio in attesa della liberazione dal becero europeismo di maniera. Così come aderisco con tutto l’impegno richiesto alle iniziative promosse da altre organizzazioni politiche o di categoria come Reimpresa , che stanno diffondendo sul territorio la cultura della verità e del lavoro in modo impeccabile e capillare. Non potendo per i prossimi mesi partecipare attivamente all’aggiornamento del blog, dedicherò tutti gli scampoli di tempo disponibili per fornire il mio contributo di collaborazione e partecipazione agli eventi, ai convegni, ai forum, che avranno come premesse e finalità la diffusione della cultura del pane, del lavoro e della verità. E concludo questa breve incursione con le parole di Vittorini, perché è proprio da quel momento, dal lontano 1945, che dobbiamo ripartire per capire i motivi del fallimento di una Resistenza divisa, frammentata e tradita, di un’Unificazione nazionale lasciata a metà e rimasta a tutt’oggi incompiuta, di una Costituzione democratica fornita come elenco di buoni propositi da attuare ma mai diventati concretamente e compiutamente operativi. Perché è proprio sulle crepe prodotte da questo fatale e triplice fallimento che si è inserito il tarlo della “modernità” funesta dell’europeismo, della globalizzazione, della finanziarizzazione spinta dell’economia, della società, della politica e della vita umana nel suo complesso.                                          
 
La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell’impotenza o un astratto furore…Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’”anima”. Mentre non volere occuparsi che dell’”anima” lasciando a “Cesare” di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a “Cesare” (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio sull’”anima” dell’uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?” 
 
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