LA CLASSE MEDIA

Fiorenzo Fraiolidi Fiorenzo Fraioli (ARS Lazio), da Ecodellarete*

Nel commentare sul blog Sollevazione ho, provocatoriamente, affermato che "Paradossalmente, per indicare la natura della contrapposizione odierna rispetto all'UE, l'espressione 'guelfi/ghibellini' sarebbe più chiara che non 'destra/sinistra'. Pensateci bene: i guelfi appoggiavano il papato, alleato naturale dei liberi comuni contro le pretese di egemonia degli alemanni, i ghibellini erano dalla parte di questi ultimi", al che Pasquinelli ne ha approfittato per farmi la leZZioncina di storia: "Qual'era infatti l'oggetto del contendere? A chi dovesse spettare la primazia politica. Se all'Impero o alla Chiesa. I guelfi (che poi su questo si divisero) difendevano il principio del 'missus dominici', ovvero che il potere politico dovesse essere affidato al Papa. Da questo punto di vista i 'progressisti' erano i ghibellini, per nulla i guelfi. E non è vero che i comuni italiani erano guelfi: c'erano due leghe opposte, di comuni guelfi e comuni ghibellini. Quelli che stavano sotto il tallone di ferro del dispotismo clericale necessariamente chiesero l'aiuto dell'imperatore svevo. Potevano fare altrimenti? Su scala storica possiamo dire che la vittoria dei guelfi fu una delle ragioni che, rafforzando la Chiesa, rallentò di secoli il processo che porterà l'Italia a diventare uno Stato-nazione. Altro quindi che che noi oggi saremmo simil-guelfi!".

Ora, io volevo solo dire che molti liberi comuni italiani dovendo scegliere, nella contesa tra il papato e l'impero, scelsero il papato; magari perché era l'imperatore che gli mandava contro gli eserciti, e non il papa, al quale bastava, in fondo, che cantassero messa e pagassero quel che dovevano pagare. Questo volevo dire, sostenendo altresì che la dicotomia terminologica (terminologica, ho detto terminologica) "destra/sinistra" mi appare, paradossalmente, perfino più obsoleta di quella "guelfi/ghibellini".

Ora riflettiamo un attimo. Quand'è che una dicotomia secca riesce a descrivere bene lo stato delle cose? Evidentemente quando le contrapposizioni sono nette e non discutibili. In guerra, per esempio: laggiù c'è il nemico, da questa parte ci sono i nostri. In guerra c'è poco da discutere, una volta che ci sei. Nel 1943 da una parte c'erano gli angloamericani (che volevano la libera circolazione dei capitali) e i comunisti, dall'altra la Repubblica Sociale Italiana (meno liberista degli angloamericani) e i nazisti. Giovanotto, da che parte stai? O sei partigiano, o sei un fascista, tertium non datur! E non me ne importa un fico secco dei vagheggiamenti sociali della tua Repubblica Sociale, stai coi nazisti e basta! Sei un fascista! Deve funzionare così, è inevitabile che funzioni così.

Una dicotomia secca serve a dividere il campo in due; da una parte ci stanno i buoni, dall'altra i cattivi. E ognuno si trova, ovviamente, nel campo dei buoni, perché dall'altra parte ci stanno i cattivi. Ecco, dunque, dove vogliono finire a parare quelli che non si rassegnano, oggi, ad abbandonare la contrapposizione "destra/sinistra": vogliono tirare una linea e dire "di qua ci siamo noi (destra o sinistra è lo stesso), dall'altra parte i cattivi (sinistra o destra è lo stesso)". Chiunque si azzardi a proporre una demarcazione nuova, che proprio perché è nuova apre spazi dialettici, viene accusato di lavorare per il re di Prussia. Il senso profondo è, a mio parere, quello di ricordare che la contrapposizione vera e ultima è quella tra il proletariato e il capitalismo, in una visione che assegna alle altre classi sociali un ruolo che è ancillare, secondario, di truppe più o meno cammellate, perché le due grandi classi sociali che guidano lo scontro sono, appunto, il proletariato e il capitalismo. Che vuoi tu, misera classe media? Tra un po' sarai proletarizzata e finirai nei nostri ranghi (se sarai buona), oppure reciterai la parte dei fascismi al servizio del capitale!

E' corretto questo modo di pensare? Io credo di no. Dov'è l'errore? L'errore è il solito, quello che i comunisti alla Pasquinelli commettono da sempre, anche quando, a parlargli, sembrano più intelligenti. Ma poi, non appena il conflitto si risveglia, tornano ai vecchi sempiterni dogmi, il primo dei quali è: esistono solo due classi, il proletariato e il capitalismo, in lotta mortale tra di loro; tutte le altre classi sono delle apparenze, in realtà non esistono.

Le cose non stanno così.

Io affermo che la classe media è una classe sociale in sé e, soprattutto, per sé. Io sono un membro della classe media, lo sono sempre stato, sia quando ho avuto più soldi che quando ne ho avuti di meno. La mia famiglia è sempre stata una famiglia di classe media, da generazioni, anche se la maggior parte di loro ha dovuto emigrare per non morire di fame. La classe media, io affermo, non è tale per sole ragioni di reddito, la classe media è una categoria dello spirito. Io potrei guadagnare meno di un operaio (è successo agli inizi dei novanta del secolo scorso, quando molti dei miei compagni di scuola del paese guadagnavano molto più di me), ma io sono sempre stato classe media, mentre loro non lo sono e non lo sono mai stati.

Cos'è dunque questa classe media, che ho definito addirittura "una categoria dello spirito"? La classe media è composta da un tipo umano molto diffuso, dunque, se vogliamo, del tutto privo di ogni carattere di eccezionalità. La classe media (da non confondersi con l'insieme degli uomini medi, essendo una classe qualcosa di più della somma dei suoi elementi) non si riconosce nel valore dell'eccezionalità, ma in quello della misura, della giusta misura. Altre caratteristiche della classe media sono l'equilibrio, la preoccupazione per il futuro unita all'operosità nel presente, in generale il senso del limite. La classe media vuole il giusto guadagno, considerato come il giusto riconoscimento per chi lavora; non concepisce l'uguaglianza assoluta ma teme le grandi disuguaglianze, perché queste sono prodotte dall'azione del suo nemico mortale, che qui possiamo ben chiamare (facendo contento Pasquinelli) il capitalismo.

Che questa classe non goda di grande popolarità, perfino tra i suoi stessi rampolli, è cosa evidente. Quale giovane, nel fuoco dei suoi anni, può ammettere di appartenere a una classe così poco eroica? Salvo poi, quando la vita comincia a presentare il conto, tornare nei ranghi.

Questa classe, che non è definibile in termini reddituali, bensì valoriali, ha avuto nel corso dei secoli una consistenza variabile, determinata però non dai livelli di reddito, ma dal sistema di valori dominante in ogni epoca e dalle circostanze oggettive. Non è una classe riconoscibile in base a considerazioni genetiche, ma un prodotto degli eventi storici. Il fatto che la sua esistenza non dipenda dal livello di reddito, ma da altro, significa, con buona pace di Pasquinelli, che la classe media non sparirà per il semplice fatto che i suoi redditi si ridurranno al livello dei proletari precarizzati. Le due classi potranno apparire indistinguibili, ad un esame puramente econometrico, ma resteranno sempre distinte. La classe media esiste, insomma, perché esistono i valori che la definiscono, e nella misura in cui questi stessi valori riescono a sopravvivere nelle temperie della stroria.

Non appartiene alla classe media l'operaio che nei primi anni dell'euro si è indebitato per sostenere consumi che non avrebbe potuto permettersi. Io, che sono classe media, per un paio di volte ho rinunciato alle vacanze estive, ma non ho chiesto un prestito. Non appartiene alla classe media il proletario che ha dato ascolto alla propaganda berlusconiana secondo la quale tutti potevano arricchirsi facilmente. La classe media sa bene che la ricchezza, sia pur grande, è il frutto del duro lavoro di una vita, per non dire generazioni. Appartengono alla classe media, in questo senso, anche quelle famiglie che sono arrivate alla ricchezza attraverso il lavoro e il sacrificio dei nonni, poi dei figli e oggi dei nipoti, senza mai cedere alle lusinghe degli strozzini che offrivano prestiti facili per "ampliare l'attività". Questa, amico Pasquinelli, è la classe media!

Questa classe sta oggi riflettendo e interrogando se stessa. Sta, anche, riconoscendo i suoi errori, soprattutto di indifferenza e disimpegno verso la politica, sta elaborando con lentezza (forse troppa) una sua strategia e, soprattutto, si guarda intorno in cerca di possibili alleati. La classe media comincia a capire che il suo nemico mortale, il capitalismo, l'erede dei pirati che infestavano i mari, dei grandi macellai di ogni epoca storica chiamati grandi conquistatori, deve essere fermato. La classe media sa di non avere le forze per vincere questa battaglia mortale, e cerca l'appoggio del proletariato. Ebbene, cosa si sente rispondere da alcuni dei suoi presunti rappresentanti? Che i titolari di partita IVA non sono geneticamente diversi dai grandi capitalisti, solo molto meno ricchi? E' questa la risposta?

La guerra di classe è riesplosa in tutta la sua virulenza, e presto ci troveremo nella situazione di dover tracciare una linea e chiedere "da che parte stai?". Il problema è capire, prima di considerare la possibilità di un'alleanza tra la classe media (che è classe in sé e per sé) e il proletariato (è esso classe in sé e per sé?), se questa può essere un'alleanza tra pari, oppure se qualcuno pensa di usare l'altro per i suoi fini esclusivi. Il timore è reciproco, questo è ovvio, ma per capirsi è necessario parlar chiaro. Questo è il motivo per cui chi rispolvera la vecchia terminologia "destra/sinistra" non allappa la classe media. Questa preferisce, in questa fase di ricerca di una possibile alleanza, un linguaggio più attento alla reale e concreta natura degli interessi in gioco. E che nessuno pensi di liberarsi mai della classe media, che è classe in sé e per sé.

* L'articolo è stato pubblicato anche su appello al popolo, al quale rinviamo per la lettura degli interessanti commenti.

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