Il Tar Lombardia boccia l’integralismo anglofono

di Francesco Picozzi Legge web

IL FATTO

Con sentenza depositata il 23 maggio, il Tar Lombardia ha ricostruito normativamente il rapporto fra Italiano e lingue straniere nell’insegnamento universitario.

La questione è sorta in quanto gli organi decisionali del Politecnico di Milano – al fine di rafforzare l’internazionalizzazione degli studi – hanno stabilito di tenere, a partire dal 2014, tutti i corsi di Laurea magistrale e di Dottorato esclusivamente in Inglese, con conseguente preclusione all’uso dell’Italiano nelle lezioni e negli esami.

La reazione non si è fatta attendere: intellettuali e giornalisti hanno mosso dure critiche a tale deliberazione e alcune centinaia di docenti dell’Ateneo milanese si sono rivolti al Tar che, riconoscendo pienamente le ragioni dei ricorrenti, ha annullato le illegittime decisioni del Politecnico.

LA SENTENZA

Il Tar ha sviluppato il proprio ragionamento muovendo dal principio – di rango costituzionale – per cui l’Italiano è la “lingua ufficiale della Repubblica”, pertanto, in nessun campo dell’azione statale, il suo ruolo può essere subordinato ad altri idiomi.

Coerentemente con tale principio, nell’ambito dell’istruzione universitaria è tutt’ora vigente l’art. 271 del R.D. n. 1592/1933, che definisce l’Italiano “lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami”.

Questo “primato della lingua italiana” non è fine a se stesso, ma tende a garantire la conoscenza e la diffusione del patrimonio culturale di cui l’Italiano è espressione.

La lingua, infatti, non è un mezzo di comunicazione neutrale, ma uno strumento intimamente legato alla cultura di un popolo.

Svolta tale premessa, i Giudici hanno evidenziato i profili di invalidità delle scelte dell’Ateneo milanese, chiarendo, innanzitutto, che – ai sensi della l. n. 241/2010 – è legittima l’istituzione di insegnamenti e persino di interi corsi di laurea in lingua straniera.

Ciò che non è consentito ad un Ente pubblico di istruzione è la messa al bando – in maniera aprioristica e indiscriminata – dell’Italiano dalla fase più avanzata della formazione universitaria.

Tale irragionevole impostazione lede non solo il principio del primato della nostra lingua ma anche la libertà di insegnamento (art. 33 Cost.) e il correlato diritto allo studio.

Infatti, l’eventuale rifiuto di un docente di esprimersi in Inglese comporterebbe la perdita dell’insegnamento nel corso specialistico, mentre agli studenti intenzionati a completare la loro formazione presso il Politecnico si imporrebbe senz’altro di rinunciare ad apprendere in Italiano.

Tutto ciò viola anche il principio generale di proporzionalità, che impone alla Pubblica Amministrazione di perseguire un determinato obiettivo minimizzando il sacrificio degli altri interessi giuridicamente tutelati.

Nel caso in esame per ottenere lo scopo di aprire l’Ateneo al confronto con l’estero è sufficiente la disponibilità di un’adeguata offerta formativa in altre lingue, senza giungere ad imporre ingiustificate restrizioni a chi vuole utilizzare l’Italiano.

Anche il modo di intendere l’internazionalizzazione universitaria da parte dei vertici del Politecnico è stato severamente censurato.

Infatti, da un lato, si è fatto notare come l’internazionalizzazione non vada intesa a senso unico, cioè soltanto come recepimento nella didattica italiana di valori stranieri, ma consista in uno scambio, volto anche a far conoscere all’estero la nostra cultura.

D’altro lato, si è ricordato che l’utilizzazione della sola lingua inglese non è coerente con l’obiettivo dell’internazionalizzazione, poiché comporta un’apertura limitata alle sole culture anglofone.

Non si tratta certo di disconoscere la diffusione dell’idioma anglo/americano, quanto di rammentare che la legge mira ad un’apertura al pluralismo culturale non certo limitata ad una sola lingua e alla Weltanschauung di cui questa è portatrice.

CONCLUSIONI

Si condivide pienamente la sentenza sin qui riassunta sia perché offre un’equilibrata tutela alla lingua italiana sia perché dimostra una sensibilità per l’apertura e il confronto fra le culture assai più sincera rispetto all’impostazione seguita dai vertici del Politecnico di Milano.

Occorre, dunque, salutare con soddisfazione questa débâcle giudiziaria dell’integralismo anglofono.

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