CONCETTO MARCHESI: PRINCIPII COSTITUZIONALI RIGUARDANTI LA CULTURA E LA SCUOLA

RELAZIONE del deputato MARCHESI CONCETTO sui PRINCIPII COSTITUZIONALI RIGUARDANTI LA CULTURA E LA SCUOLA presentata nella I Sottocommissione dell’Assemblea Costituente

 Concetto Marchesi

AVVERTENZA

Pensavo che in una Carta Costituzionale si potesse bensì affermare il diritto all’istruzione nel titolo che determini le libertà politiche e i diritti del cittadino: ma che il complesso dei temi particolari riguardanti lo sviluppo della cultura nazionale e l’ordinamento della scuola spettasse alla competenza di altra Assemblea e dovesse perciò essere contemplato in sede di normale attività legislativa e risoluto per legge. A pensare in tal modo mi confortavano gli esempi di altre moderne Costituzioni repubblicane: quella della Unione Sovietica del 1936 e della Francia del 1946. Invece nella Costituzione di Weimar del 1919 una intera Sezione con nove copiosi articoli (142-150) è dedicata all’istruzione, compresa quella religiosa, e agli istituti di insegnamento; e a tale criterio sembra ispirato o almeno è conforme l’intendimento di un grande Partito italiano, quello della Democrazia Cristiana, il quale in due autorevoli documenti ha mostrato di voler includere appunto il tema della scuola nel quadro delle linee costituzionali (1).

Per questa ragione, avendo daccanto o di contro a me un relatore che di tale largo intendimento potrebbe essere interprete, ho creduto dover superare i limiti che ritenevo opportuni e indugiare su osservazioni e rilievi che altrimenti mi sarebbero apparsi intempestivi. In questo primo abbozzo che presento all’esame della Sottocommissione ho dunque dovuto preferire l’eccesso al difetto. Togliere è meno laborioso che aggiungere.

I.

L’arte e la scienza sono al servizio dell’umanità. Esse accrescono libertà allo spirito umano, ma di libertà hanno innanzi tutto bisogno: e non possono degnamente e utilmente operare se costrette a fini determinati e condizionati.

La loro moralità, che è somma, non è racchiusa in precetti iniziali né muove da propositi obbligatori, ma consiste nella loro forza espressiva e rivelatrice, in quello stimolo continuamente attivo che è proprio dell’opera d’arte, in quel fluire continuo della indagine scientifica verso l’inesplorato del mondo umano e naturale.

Lo Stato non ha un’arte, come non ha una scienza; ma dell’arte e della scienza si giova per i suoi fini nazionali e sociali. Ha il dovere di proteggerle in ogni modo e di servirsene, ma ha pure il dovere di lasciare che esse si sviluppino libere e padrone di sé oltre e dentro la scuola.

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Stato e Scuola. — C’è chi afferma che lo Stato ha una funzione ausiliaria nel campo della Scuola (2). Potrebbe essere questo un increscioso punto di ostinata controversia. Credo, con tanti altri, che non esista funzione nazionale e sociale più alta di quella che provvede alla educazione ed elevazione del popolo ed assicura pertanto la unità della Nazione, laddove le autonomie aprirebbero la strada allo spirito regionalistico o municipale o confessionale. Per questo suo valore unitario, per questo suo lievito d’indissolubilità nazionale la Scuola deve appartenere allo Stato il quale può riconoscere e favorire il sorgere e prosperare di organizzazioni ausiliarie di educazione e di assistenza, ma non subordinarsi ad esse.

Si obbietta che non sempre la Scuola è appartenuta allo Stato: che in tempi di florida civiltà, come in Grecia e in Roma, non esisteva una scuola di Stato: e che attorno ai più grandi maestri di scienza, di filosofia e di retorica si raccoglievano i giovani seguaci che propagavano e perpetuavano in progressione d’indagine, di pensiero e di arte l’insegnamento del maestro. Ma in Grecia e più ancora in Roma la scuola venne sempre più richiamando l’attenzione dello Stato e nei secoli dell’Impero venne acquistando sempre più stabilità e universalità, fino ai tempi moderni. Oggi il problema educativo non riguarda più un ceto di fortunati o di favoriti, ma tutto quanto il popolo, compresi quei tanti milioni di servi e quei plebei miseri ac proletari che ormai sono così potenti fattori di vita sociale.

La scuola, dai tempi più antichi ai nostri, non è proceduta per salti o per un alternarsi di oscuramenti e di luci, ma si è sviluppata senza interruzione con un processo conforme allo spirito e alle necessità dei tempi. Essa è una delle più chiare voci, e talora è l’unica voce che ci giunga dal passato. Perciò bisogna usare la massima cautela nell’innovare e nell’abolire. La scuola è un istituto secolare che non sopporta senza danno sovrapposizioni bastarde o nemiche; è un albero antico su cui bisogna operare degli innesti e non delle sconsigliate mutilazioni.

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La istruzione — sia primaria, sia media, sia universitaria — non è problema di regioni o di comuni o di enti privati. È problema nazionale. La deficienza di una parte si fa sentire sull’altra; come l’analfabetismo del Mezzogiorno è gravato a lungo e grava tutt’ora sulle altre zone d’Italia. Ciò che è malattia di una parte è anche malattia del tutto: se si vuole che l’Italia resti o divenga veramente un tutto. Non basta che alcune regioni abbiano possibilità di rendere fiorenti i loro istituti educativi se altrove l’intelligenza si fa sorda e pigra e vuota e la mente resta ignara e incapace di riflessione. L’elettore più ignorante e più rozzo vale quanto il più elevato: e la sorte del Paese è affidata alla stolidezza quanto alla consapevole intelligenza. Non temete l’accentramento, onorevoli colleghi. La scuola, quando è buona e funziona bene, è naturalmente decentrata. E il decentramento non dipende né dal comune né dalla regione né dallo Stato: dipende dal maestro. Chi decentra veramente la scuola e ne fa un organismo vivo e perciò distinto dagli altri organismi consimili è il maestro, cioè l’individuo, cioè la persona umana. Questa bisogna curare e sollevare dalla miseria e dalla mortificazione. Come la terra va fertilizzata perché produca, così anche l’uomo.

Molti di quelli che fanno la politica considerano la scuola come una astrazione fuori delle necessità presenti; e pochi la sentono come un organo, ed organo supremo, di continuità e di sviluppo della vita nazionale. Nel mondo parlamentare essa costituisce di solito un settore dove il deputato si affaccia per fuggevoli motivi di opportunità. Per molti rappresentanti della Nazione la geografia della scuola è stata sempre limitatissima, e non ha quasi mai superato la estensione di un collegio o di una circoscrizione elettorale. Ma l’istituto scolastico oggi è in crisi di dissoluzione: e aspetta una disciplina con la stessa ansietà con cui il popolo italiano aspetta lavoro e pane. La istruzione elementare è in gravissima penuria di locali, di attrezzi, di maestri; in talune zone ha già il quaranta per cento di analfabeti, in altre non si va al di là della terza classe; e la istruzione obbligatoria per tutti è una delle tante disposizioni irrisorie che sembrano prese soltanto per dimostrare la mala volontà o la impotenza delle classi dirigenti. I maestri elementari aspettano ancora la rottura di quel ruolo chiuso che consente finora ad alcuni vivi più fortunati la felicità di ereditare il posto dei morti, mentre la massa resta indietro, addensata pei gradi inferiori.

È prima necessità della vita nazionale che l’alfabeto — potente nemico della miseria economica — sia imposto ad ogni cittadino in ogni plaga d’Italia. Lo Stato, associandosi in questo compito regioni e comuni, dovrà rendere possibile tale istruzione obbligatoria, oltre che con la istituzione di un efficace controllo e con provvidenze di ogni genere, con l’aumento degli edifici scolastici e con un decoroso trattamento giuridico ed economico degl’insegnanti.

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Libertà d’insegnamento. — Si torna a parlare oggi con insistenza della libertà d’insegnamento: e si dà a questa espressione quasi un tono di sfida contro la scuola di Stato. Sorgano pure dovunque gl’istituti privati d’istruzione e di educazione; ma lo Stato dovrà garantirsi nel controllo dei titoli pubblicamente riconosciuti e valevoli. La regione, il comune, gli enti locali e privati possono arricchire i propri istituti scientifici, ampliarli, dotarli di nuove provvidenze, di nuovi strumenti e magari di nuove funzioni che ne accrescano il rendimento e il valore; possono istituire scuole specializzate, scuole agrarie, di artigianato, di addestramento al lavoro, convitti di assistenza e d’istruzione, senza che ne venga offesa all’organismo educativo stabilito e vigilato dallo Stato. La regione o la città che più o meglio sapranno concorrere alla prosperità e all’incremento dei loro istituti di educazione e di cultura ne avranno per ciò appunto maggior vantaggio e decoro e libertà di sviluppo: perché il controllo dello Stato non deve essere una catena, ma una garanzia che la legge comune sia rispettata nelle sue norme fondamentali.

Non sarà vano ripetere che su tutte le distinzioni e le autonomie regionali, la scuola — e soltanto la scuola — garantisce l’unità della Nazione.

Da più parti oggi s’invoca il principio di autonomia o di libertà universitaria. Ma lo Stato non potrà e non dovrà mai abdicare alla sua sovranità nell’ordinare e nel dirigere la scuola nazionale e non potrà cedere a nessun istituto, estraneo a sé, funzioni sue proprie e inalienabili tra le quali è il conferimento dei titoli di accesso all’esercizio delle professioni liberali e delle pubbliche amministrazioni. Per gli autonomisti più risoluti lo Stato dovrebbe limitarsi a somministrare i danari, senza nessun’altra ingerenza; l’Università libera penserebbe poi essa a stabilire con piena validità legale i suoi ordinamenti e a rilasciare i suoi titoli didattici. Ma lo Stato è il solo responsabile dell’amministrazione finanziaria della Nazione; e non è ammissibile che altri enti abbiano facoltà di amministrare liberamente parti del pubblico denaro.

Oggi si fa un gran parlare di libertà scolastica anche per indicare un movimento contrario a una temuta prevalenza della scuola statale. Ma, onorevoli colleghi, è troppo grande il compito che oggi, in Italia e nel mondo intero, spetta alla scuola perché si possa lasciarla fuori dal controllo di Stato.

II.

L’istruzione — si dice — è assunta dallo Stato, non solo per istruire l’intelletto, ma anche per educarne l’animo. Siamo d’accordo. È assunta dallo Stato perché la scienza abbia una dignità e un valore che non risultino soltanto dalla nozione positiva.

Il mondo della cultura e della scuola — specie in questo ultimo quarto di secolo — ha dato ai giovani un senso di soffocazione: è apparso come chiuso a tutte le esigenze del mondo morale; e più la cultura si elevava e affinava nelle sue particolari ricerche e applicazioni, più appariva il suo distacco dai principî di dignità e utilità sociale e da quell’aspirazione all’universale che è nello spirito dell’uomo. Così veniva formandosi il tecnico, il giurista, il letterato, lo storico, dentro un’orgogliosa clausura che badava a dar pregio allo strumento e alla persona che lo adoperava e all’utilità personale che ne veniva anzi che al fine superiore cui lo studio è diretto, cioè alla scienza intesa come perpetua ricerca di un bene comune. Così la cultura più saliva in alto, più si estraniava dalla vita popolare e nazionale; diveniva interessata occupazione di laboratori, di biblioteche, di singoli istituti dove si curava l’addestramento del conoscitore, dell’esperto, dell’erudito, dello scolastico, di coloro che avevano l’unica sollecitudine di distinguersi dalla massa degli umili per entrare in quella dei profittatori. Così la cultura e la scienza si venivano raccogliendo e differenziando in una ricerca di posti distinti da cui si potesse comandare agli altri e abusare degli altri. Invece di una comunione spirituale si cercò l’autorità: e l’indifferenza politica e morale divenne il gelido manto della dottrina. E quando l’enorme crisi del mondo scoppiò e avvenne l’urto immane delle forze in conflitto, quei maestri usciti all’aperto non seppero né vedere né ricercare né scoprire più nulla, e non ebbero più una parola da dire ai discepoli che si avviavano da soli verso la salvazione o la morte.

Perché è avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? No: per mancanza di coscienza civile. È avvenuto perché mancava l’amore della scienza, della cultura, dell’arte rivolta ai supremi fini nazionali e sociali; perché si trattava di una scienza, di una cultura, di un’arte interessata e quindi destinata a volgersi verso tutti gli approdi sotto la spinta di ogni vento. Soltanto una coscienza civile, qualunque essa sia, può far sentire la necessità di dare il più esteso valore all’opera individuale. Nel nobilissimo manifesto della Associazione Professori universitari, durante la lotta clandestina del 1943-44, si leggevano queste parole: «Le tragiche vicende che noi oggi viviamo non sono solamente lo sbocco di venti anni di stoltezza e di corruzione politica da parte di alcuni ceti e di alcuni uomini: esse segnano piuttosto la crisi profonda di istituzioni politiche, di organizzazioni sociali, di un’atmosfera di cultura e di moralità che hanno permesso, provocato e giustificato quell’opera nefanda. La realtà storica di oggi è rivoluzionaria: i partigiani combattenti, gli operai delle officine, gli intellettuali che affiancano il loro lavoro sono gli antesignani di questa rivoluzione costruttiva della Italia nuova sotto le leggi della libertà e della giustizia. Voi professori meno che altri potete mancare, perché la costruzione richiede non solo il soccorso di tecnica illuminata, ma luce di esperienza e di ragione, coscienza aperta della realtà e dei suoi problemi, controllo degli stessi valori ideali».

Perché questa coscienza si affermi nel corso del tempo non basterà certamente il decreto del legislatore. Il legislatore potrà mutare gli ordinamenti, non le capacità, gli spiriti, la intelligenza degli uomini. Perché questo sia compiuto è necessaria la trasfusione di sangue nuovo nella scuola italiana; bisognerà attingere alla fonte ignota sinora, alla inesauribile sorgente delle energie e delle capacità popolari; bisognerà portare nelle scuole medie e superiori la classe lavoratrice che finora ne è stata esclusa.

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Si è recentemente ripetuto l’allarme sugli incalcolabili danni materiali e morali che l’Italia ha sofferto e continua a soffrire non tanto per l’analfabetismo o il semianalfabetismo di molti figli del popolo quanto per le decine di migliaia di laureati e diplomati immeritevoli e trafficanti immessi in tutte le carriere e professioni, politica e giornalismo compresi: causa non ultima del decadimento e della rovina presente.

È necessario socchiudere, non spalancare le porle delle Università; fare dello studente un cittadino che compia una pubblica funzione a vantaggio di tutti: quella d’istruirsi: per rendere socialmente valida la propria capacità intellettiva. La scuola deve essere aperta a chiunque abbia la possibilità d’intendere e di apprendere, perché la macchina sociale ha bisogno di questa minoranza eletta che possa metterla in movimento.

È interesse della Nazione che ognuno abbia modo di fecondare i germi dei proprio destino e che possa sollevarsi non sugli altri ma in mezzo agli altri, liberamente, con tutte le naturali ricchezze ch’egli possiede. Ed è danno e pericolo comune che continui ad esistere una classe alla quale la servità economica tenga chiusa quella porta della conoscenza che è veramente la porta della vita.

Varcati i limiti della scuola obbligatoria si giunge alla soglia delle scuole specializzate e medie superiori. Qui dovrà iniziarsi la salutare selezione che Quintino Sella, il vecchio statista piemontese, auspicava senza vederne i modi e le possibilità di attuazione (3). Una selezione la quale dovrà consistere nel dirigere ed avviare tutte le attività dei singoli individui per quelle vie in cui potranno più degnamente operare e progredire. Selezionare non vuol dire costituire la folla dei reietti e degli umiliati, ma disperdere quella degli spostati che si va facendo sempre più paurosa. D’altra parte si sente la necessità di fare avanzare verso i gradi superiori della cultura quelli che ne sono stati esclusi non per difetto d’ingegno ma per difficoltà economiche rimaste insuperabili.

Non sembrerà esagerato affermare che quello scolastico si presenterà subito all’Assemblea legislativa come uno dei problemi capitali della rinascita del Paese, se si pensa che attraverso la scuola vengono gli esperti della tecnica, della cultura, della produzione, della pubblica amministrazione: che nella scuola si formano e si formeranno non solo gli artefici della vita sociale ma gli artisti della vita spirituale. Ed è problema che si potrà risolvere oltre la cerchia dei partiti, su un campo dove tutti possono convenire gli uomini di buona volontà. Perché ogni uomo di buona fede e di buona volontà si è accorto che l’Italia è da molto tempo travagliata da una doppia crisi di eccedenza e di carestia eccedenza di incompetenti, di inabili, di spostati: carestia di energie competenti e produttive. L’Italia ha un tumore che è necessario estirpare al più presto: il tumore dottorale: è il paese che ha un enorme, ridicolo numero di dottori. E in verità non occorre chiamarsi socialisti o comunisti per riconoscere che i tre quarti della popolazione sono sottratti alla prova dell’attività intellettuale. La leva in massa degli eserciti è stata fatta da secoli, la leva dell’intelligenza mai. Ed importa all’Italia che questi milioni d’Italiani entrino nel circolo della vita nazionale. Chi darà i mezzi per questa leva dell’intelligenza? Si troveranno: non già nelle elargizioni di mecenati milionari, ma nelle finanze dello Stato che provvederà a premere nei giusti limiti e con le dovute gradazioni sulle private fortune; si troveranno nel concorde tributo di tutti i cittadini che sentiranno nella scuola il presidio della Nazione. Se i nostri bilanci militari dovranno essere contratti o aboliti, siccome impongono i vincitori, accettiamo con animo equo questa necessità che ci permette intanto di preparare e di addestrare nella scuola aperta al popolo i futuri reggitori e artefici dei nostri destini.

Le democrazie di quasi tutto il mondo hanno fatto uguale il diritto, ma hanno lasciato solo ai meno la possibilità di esercitarlo.

Uno Stato che cerchi economie nei bilanci per la pubblica istruzione è uno Stato nemico della civiltà, oltre che della propria sicurezza.

III.

Uomini di autorità e di esperienza vedono nella «famiglia» l’organo più competente, anzi l’unico organo competente nella educazione dei figli. Potremmo non negarlo: sebbene all’affermazione che «lo Stato può essere il più prepotente violatore delle coscienze» (4) sia lecito rispondere che la famiglia può esserlo di più. In ogni modo riteniamo non si debbano porre ostacoli a questo diritto-dovere familiare. Superati i limiti della istruzione obbligatoria, la famiglia è libera di mandare o no i propri figli alle scuole medie e superiori, di mandarli in una scuola pubblica o in una privata.

Altro urgentissimo compito spetta all’azione statale: quello di restituire alla scuola privata l’ufficio di emulatrice e stimolatrice di educazione e di cultura: ufficio che mediante l’abuso delle parificazioni si è venuto alterando sino a risolversi spesso nel suo contrario.

Nel Programma della Democrazia Cristiana per la nuova Costituzione, con molta brevità compensata da molta chiarezza, si definisce il concetto di libertà della scuola la quale significa lotta contro i monopoli scolastici, che avviliscono la cultura, lotta per il riconoscimento dei diritti della scuola privata» (5). Per monopolio scolastico è da intendere la scuola nazionale di Stato (6) considerata quale pubblico servizio che si possa dare in appalto o affidare alla gestione privata. Sappiamo che questo è uno dei punti capitali su cui poggia la politica scolastica dell’Azione Cattolica: stendere su tutta l’Italia una rete d’istituti privati, debitamente parificati in concorrenza con la scuola di Stato. Se ci intendessimo su questa parola «concorrenza» potremmo eliminare un motivo di acuto dissidio. Non contestiamo la utilità della scuola privata fino a che essa gareggi con la scuola pubblica sulla base di una maggiore o migliore preparazione. Sotto questo riguardo la scuola privata, sia confessionale sia laica, può portare un valido aiuto all’incremento della cultura e della educazione nazionale; ma contestiamo che ad essa sia conferibile quel diritto che deve attribuirsi unicamente allo Stato: il diritto di rilasciare titoli legali di studi. Mercé questo diritto la scuola privata entra in gara con quella pubblica non sulla base di una maggiore preparazione nel meritare quei titoli, ma di una maggiore facilitazione nel conseguirli. Colà infatti sono accorsi ed accorrono con buona fortuna tutti gli infortunati delle pubbliche scuole che abbiano modo di pagarsi l’ingresso e di corrispondere un adeguato compenso al beneficio ricevuto.

Sorgano pure in copia e fioriscano gli istituti privati di assistenza e di educazione. Qui la Chiesa cattolica con la molteplicità dei suoi mezzi e con il prestigio della sua tradizione può molto operare: ma l’autorità dello Stato resti sovrana nella misura e nella valutazione del profitto che deve aprire agli scolari le vie delle pubbliche attività.

È inoltre da considerare che la scuola privata riguarda massimamente la scuola media o secondaria, quella in cui «si forma — diceva Ruggero Bonghi — lo spirito avvenire del Paese» (7); quella che Giovanni Gentile proclamava «lo strumento più potente della cultura nazionale» (8). E possiamo questa volta essere d’accordo coi due pensatori fra loro così lontani.

IV.

A definire più compiutamente il concetto democristiano di libertà della scuola si dice ancora nel citato Programma che essa «significa lotta per l’insegnamento religioso da impartirsi in tutte le scuole secondo la tradizione cattolica della famiglia italiana». E si fa seguire subito dopo una chiosa di attualità: «Oggi ritornano di moda le vecchie rimasticature sulla scuola laica con argomenti che sanno di muffa e di tanfo» (9).

Sia pure. Rimastichiamo pure — ostinati ruminanti — le vecchie radici della laicità, ma senza più l’hegelianismo della vecchia Destra parlamentare che di fronte alla Chiesa consacrata voleva consacrare lo Stato, e senza quel soddisfatto positivismo della Sinistra che riprendeva il culto della dea Ragione e presumeva di avere già in mano le chiavi dell’Universo.

Vecchie rimasticature. Infatti molti anni sono trascorsi da quel febbraio 1876 in cui la Commissione della Camera dei Deputati incaricata di riferire sul progetto di legge Coppino, riguardante la istruzione elementare, osservava che «l’obbligo dello studio del Catechismo si riteneva lesivo della libertà di coscienza»; e nello stesso tempo la Commissione, incaricata di riferire sull’altro progetto di legge che regolava la istruzione media, a unanimità concludeva che «l’insegnamento religioso tendeva a scomparire in Italia, dove la religione si riparava nelle chiese e nelle famiglie e la fede si raccoglieva nel segreto delle coscienze» (10).

In un opuscolo (11), pubblicato a cura dell’Azione Cattolica Italiana, si osserva che con l’articolo 1 della legge 23 giugno 1877, n. 3918, a cominciare dal 1° gennaio 1878, l’ufficio di Direttore Spirituale nei Licei, nei Ginnasi, nelle Scuole tecniche, era abolito definitivamente. «La setta — si dice — aveva trionfato». La lacuna dal 1878 durò per quarantasei anni e si colmò soltanto con il Regio decreto 30 aprile 1924 (12), promosso dal Ministro Gentile del quale si esalta «l’opera poderosa» in difesa «della libertà e della spiritualità della Scuola». Ma di quell’opera poderosa l’Autore dell’opuscolo ignorava o dimenticava le maturate e persistenti intenzioni (13); non vedeva in essa l’attuazione di un vecchio disegno pedagogico-filosofico il quale poneva la religione su un piano di sviluppi dialettici, come un primo superabile momento cui doveva infallibilmente succedere l’età della filosofia, che era naturalmente quella di Giovanni Gentile (14). Il quale un tempo non voleva l’insegnamento religioso nella scuola media, dove preferiva che cominciasse a entrare quello filosofico; egli lo voleva nella scuola primaria perché quella sua filosofia veramente «libera e liberatrice, se ha da criticare e far libero lo spirito religioso, non potrà ciò fare se lo spirito religioso non si sarà svegliato» (15). Poi, mutata opinione, introdusse, da Ministro, l’insegnamento religioso nelle scuole medie, riservando alle Università questo sovrano ufficio liberatore dell’idealismo gentiliano.

Domando, onorevoli colleghi, se alla franca nostra dichiarazione di pieno rispetto per i valori religiosi dell’individuo e della società umana sia da preferire il filocattolicesimo di quei legislatori filosofi che sostenevano la necessità dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie, proclamando la religione una philosophia inferior (16) destinata a risolversi nel libero sapere; quale «oggetto di conoscenza assoluta che si risolve in termini di conoscenza logica» cioè che si risolve «in quella libera vita di critica e ricostruzione perenne» che è la filosofia (17). Domando se alla invocata esclusione di ogni commistione religiosa nelle scuole sia da preferire uno Stato che «assume la religione come grado e primo momento di un lavoro ulteriore della ragione» (18): che considera dunque il vincolo religioso come necessario perché la filosofia possa poi esercitare la sua azione «svincolatrice».

È noto il vecchio e rude attacco di Gentile contro la scuola professionale ch’egli chiama scuola «antiumana», «renitente al libero svolgimento del pensiero scientifico», «nemica, senza volerlo — come tutte le religioni positive — di ogni libertà interna ed esterna, favoreggiatrice di regimi assoluti» e destinata, quando un momentaneo interesse la spinge verso la democrazia, «ad avvolgersi nell’equivoco o a snaturare se medesima». E concludeva che «per questo verso scuola confessionale è negazione della scuola» (19).

Ma in mezzo a questa massa difettosa, viziosa e antiscolastica, spunta, fiore pregiato, quello della fede, «luce e calore spirituale» che spinge le anime giovanili «verso un’unica fonte di verità e di giustizia»; quella fede che mancava — allorché egli scriveva — nelle nostre scuole pubbliche, quella fede che non si può cacciare dalla scuola senza sostituirla con altra fede: perché «insegnamento è eccitamento e formazione di spiritualità: e non c’è spiritualità a pezzi». E aggiungeva: «La morale — tutta la vita umana — vuole una visione del mondo: e questa visione o la dà la religione o la dà la filosofia. Dove non entra o non può entrare la filosofia deve entrare la religione con le sue soluzioni facili e arbitrarie. Altrimenti ne scappa via ogni profonda convinzione» (20). Così Giovanni Gentile muoveva dalla fede cattolica per giungere al suo approdo filosofico. Egli sarebbe stato l’ultimo e più illuminato evangelista: l’evangelista della Ragione.

Noi non intendiamo barattare il catechismo cristiano con il catechismo laico del Condorcet che sostituiva al Dio evangelico i vuoti fantasmi del Benessere e dell’Amor proprio. Non in nome della scienza contestiamo la opportunità dell’insegnamento religioso, ma — se ci è consentito — nel nome stesso della religione. Sappiamo che, per quanto sia illimitata la indagine dell’intelletto, la scienza ha un limite ed ha un limite la ragione. Sappiamo che la scienza ci dà un certo che non basta al nostro bisogno di sapere, che essa non è sufficiente a rendere tutti quanti sicuri. Sicuri, dico, dell’al di là. Ma c’è proprio bisogno di esser sicuri? E non si può vivere e operare e spaziare sicuramente anche quando non ci assiste la fede religiosa e il mistero ci vieta di estendere più oltre il limite della conoscenza?

Nella vita — si dice — occorre una fede: e questa, fino a una certa età, non può darla che la religione. Non stentiamo ad ammetterlo e possiamo anche riconoscere che un fanciullo il quale non ha creduto nel divino, più tardi forse non crederà più a nulla. Egli ha bisogno di avere fin da principio questo riflettore luminoso che più tardi potrà sfavillare più chiaro o spostarsi verso altre certezze od altre speranze o spengersi. Ma qui sorge una domanda. È veramente religione quella che fa parte di un insegnamento ufficiale, ed entra — se anche facoltativamente — nel novero delle discipline scolastiche? A chi sarà affidato questo delicatissimo compito? Quanti e quali saranno in tutte le scuole d’Italia i maestri degni di tanto ufficio? Ne abbiamo l’esperienza: un’esperienza di circa un quarto di secolo. L’ora dell’insegnamento religioso è divenuta — salvo rari casi — un’ora di svagamento e di sfrenatezza disciplinare anche nelle scuole medie del cattolicissimo Veneto. La religione non s’insegna nelle scuole. La religione è in ciò che dice la madre al bambino, nella preghiera ch’essa gl’insegna, nell’atmosfera che gli crea; è nella immagine appesa al capezzale, negli stupori affascinanti o nei raccoglimenti muti delle chiese. La religione è pure nell’aula della scuola dove parla il maestro che crede e sa diffondere intorno a sé l’alito della fede e del conforto divino, perché così l’animo gli detta, non perché così gl’impone il suo ufficio. La religione entra nella scuola attraverso la religiosità del maestro; e può, anche nell’insegnamento superiore, divenire fonte di notizia e di meditazione. Ed io vorrei che, al posto di alcuni insegnamenti inutili, s’introducesse nelle nostre Università, con maestri degni e non improvvisati, la cattedra di storia delle religioni che ci aiuterebbe a rimuovere tanta ignoranza e tanta intolleranza.

Nello schema riassuntivo e integrativo posto in fine al Programma della Democrazia Cristiana, si esige che la Costituzione «deve ribadire e tenere presente nella elaborazione di singoli istituti, gl’impegni assunti dall’Italia con il Concordato» relativi alla libertà di credere, professare e propagare la fede; e tra questi impegni ci sarebbe «l’insegnamento religioso nelle pubbliche scuole, inteso veramente quale fondamento e coronamento della istruzione» (21). È mia opinione debba la Carta costituzionale tacere su questo punto che è materia di legge e deve, nel caso di una soluzione positiva, risolversi per legge. Ma per rimuovere il sospetto di volere in tal modo evitare i pericoli di una discussione acre e di un dissidio pregiudizievole ad interessi di parte dichiaro che, pure essendo geloso della sovranità statale e mal tollerante di ingerenze ecclesiastiche nella civile amministrazione, su questo punto mi sentirei personalmente disposto a transigere e a cooperare alla costruzione di quella conduttura religiosa che si vorrebbe impiantare fino ai piani superiori, in tutte le scuole. E dirò che se fossi stato in condizione di partecipare alla discussione che nel 1872 si accese in Parlamento e nel Paese sulla soppressione delle facoltà teologiche nelle Università italiane, avrei fatto augurio per la loro conservazione e per la loro fortuna, giacché ritengo che lo studio della teologia, oltre il resto, valga ad eccitare lo spirito speculativo e dialettico; e sappiamo tutti che dalle scuole laiche non sarebbero mai germinati gli «sterpi eretici» né quel modernismo contro il quale il rettore della Università cattolica di Milano impone oggi il giuramento ai giovani laureandi.

* * *

Nel campo della Democrazia Cristiana noi vediamo sorgere due pulpiti: l’uno volto spaziosamente verso sinistra, attorno a cui risuona più clamoroso l’applauso giovanile; l’altro verso destra, più specialmente riservato alle mature ed esperte e composte gerarchie e dignità. Dal primo pulpito risuonano frasi come questa «Chi crede nello spirito ha non solo il diritto, ma anche il dovere di educare alla scuola dello spirito; come chi crede nella materia educherà alla scuola della materia» (22). Plaudiamo anche noi. Ma quasi nello stesso tempo dal pulpito di destra ci giunge questa sentenza: «Non si può insegnare la verità prescindendo dalla Verità Somma, come non si può insegnare la legge morale prescindendo dal Sommo Bene».

Qui ci pare di entrare nel reticolato spinoso della intolleranza. Una tale affermazione potrebbe risuscitare il ricordo dell’articolo 106 della legge Casati che Ruggero Borghi prendeva in esame alla Camera dei Deputati il 20 febbraio 1884. Quell’articolo poneva tra le colpe passibili di sospensione o remozione «l’avere con l’insegnamento o con gli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l’ordine religioso e morale». Diceva il Borghi: « Codeste verità che il legislatore dice di essere il fondamento dell’ordine religioso e morale noi le cerchiamo… Le parole del legislatore rimontano a un’epoca in cui reggevano ancora, nelle menti dei reggitori della pubblica cosa, i sistemi compiuti di verità appurate, sui quali tutti quanti avevano, per dir così, riposato il loro animo: e non credevano né punto né poco che codesti sistemi dovessero essere discussi».

Non siamo tanto razionalisti quanto voleva sembrare quel meritamente famoso liberale moderato che pure difese l’insegnamento religioso nella scuola su quella stessa base dialettica su cui lo difenderà un suo tardo successore. Da parte nostra non abbiamo nulla da obbiettare contro certe verità appurate né sospettiamo che in materia di fede religiosa si possano un giorno sostituire con altre verità meglio appurate o che un giorno la scientia rerum, possa invadere trionfalmente la scientia divini. Riteniamo che ufficio del Governo è rispettare quelle verità, in obbedienza a quei fini di utilità generale cui lo Stato deve dirigere la propria condotta. Rispettare non vuol dire assumere. Lo Stato non ha una scienza sua, come non ha una religione o una filosofia sua. Non può essere «creatore e fonte di norme morali» — come fondatamente scriveva l’on. Tupini — (23) né può definire il bene e il male, ma il lecito e l’illecito. Il bene è l’apporto volontario della persona umana al compimento di un dovere civile. Lo Stato può disciplinare l’insegnamento scientifico nelle scuole, ma non può preferire alcun determinato sistema; esso deve accogliere nelle pubbliche Università il filosofo o il fisiologo idealista, quello cattolico, quello materialista. Ognuno di essi nella Università statale deve poter professare secondo che pensa: e nessuna disciplina e nessun metodo d’insegnamento devono essere esclusi quando servano ai fini della conoscenza e della educazione intellettuale.

«Non si può insegnare la legge morale prescindendo dal Sommo Bene».Così una parte di umanità, e tra la più consapevole e operosa, è messa fuori del mondo morale.

Può certamente la fede religiosa, quando sia intima esigenza dello spirito, essere di stimolo all’umanità nel suo processo di perfettibilità morale; ma affermiamo altresì che nella vita si possa nobilmente e generosamente operare anche senza credere nel premio grande dei cieli. Quanti hanno raggiunta la «Verità Somma», siano contenti di riconoscerla, adorarla, proclamarla nella casa, nel tempio, nella scuola; ma nella scuola si riconosca che possa dirigersi ad alto fine morale anche quella inesausta ricerca dell’intelletto che sospinge continuamente l’uomo verso le ignote luci dell’universo e pure dentro i limiti dell’esistenza terrena raggiunge un suo solido ed infrangibile bene.

Nello stesso Programma della Democrazia Cristiana si leggono queste parole che meritarono l’applauso del Congresso: «Alla religione protetta dallo Stato, preferiamo la religione che si protegga da sé» (24). Sagge parole: di quelle che una volta dette bisognerebbe non più dimenticare. I cattolici vogliono un’Italia cristiana e cattolica. Giusta aspirazione. Essa è già in massima parte cristiana e cattolica senza che ne abbia merito il primo articolo dello Statuto; e auguriamo che resti tale ma nell’animo degl’italiani e non nel freddo e meccanico cerimoniale di scettici e increduli governanti. Durante il fascismo abbiamo sperimentato quanto simulata devozione abbia offeso la santità delle chiese. Facciano i cattolici che il Cristianesimo diventi una conquista delle anime anzi che uno sfolgorio di sacri paramenti, che divenga un’ascensione continua dello spirito umano verso un bene supremo anzi che una soddisfatta ed esteriore pomposità di servizi divini la quale darebbe loro non un’Italia cristiana e cattolica ma una Italia pagana, un’invadente cattolicesimo rituale contro cui si leverebbe sempre più forte la protesta delle anime profondamente religiose.

Si dice che la religione cattolica dev’essere assunta come religione di Stato e come tale professata e insegnata anche nelle scuole perché l’Italia è nella sua grandissima maggioranza cattolica. Certamente è così. Ma lo Stato non è costituito dalla maggioranza dei cittadini, ma da tutti i cittadini; e non dev’essere rappresentante dei più e tollerante dei meno. D’altra parte una religione di Stato è naturale che esista in un mondo pagano in cui la religione è funzione civile e fa parte dell’organismo statale: in cui, insomma, non c’è una Chiesa organismo sovrano e perfetto: una Chiesa la cui universalità va oltre il riconoscimento dei singoli Stati.

La conciliazione fra Stato e Chiesa è avvenuta. Da tanti anni si sentiva ripetere questa parola, per eliminare un dissidio che pareva troppo prolungato e fastidioso. Ma che la conciliazione — mi riferisco solo ai termini del Concordato — sia fondamentalmente e stabilmente avvenuta è lecito dubitare; ed è lecito dubitare che ciò possa avvenire. La parola stessa «conciliazione» ha in sé qualcosa di precario e di fragile che non cessa di alimentare sospetti e timori: specie fra Chiesa e Stato. La Chiesa ha bisogno di libertà, non di conciliazione. Stato e Chiesa hanno ciascuno un fine loro proprio, verso cui si avviano continuamente. Quando si sono incontrati, si sono combattuti. C’è chi ha pensato sia questo il loro destino: e che così avverrà pure nell’avvenire.

Non crediamo alle certe anticipazioni della storia. La Chiesa romana è una potente organizzazione che ha superato immense difficoltà e ha conquistato fra le genti un enorme privilegio principalmente con la forza della sua autorità morale, che già nei secoli barbarici salvò e custodì la civiltà del mondo. Non sappiamo con il flusso degli avvenimenti, che porteranno nuove regole alla vita umana, quali e quanti impulsi essa avrà ad occupare più alto e più largo spazio nelle coscienze degli uomini; ma pensiamo che questo avverrà tanto più facilmente e ampiamente quanto più la Chiesa si asterrà dal chiedere agli Stati altra garanzia che non sia quella della libertà.

* * *

Seguono alcuni articoli riguardanti la Cultura e la Scuola:

Art. 1.

L’arte e la scienza sono libere: e liberi sono i loro insegnamenti.

Art. 2.

La istruzione — primaria, media, universitaria — è funzione dello Stato, in quanto essa rappresenta, sopra ogni interesse privato e familiare, l’interesse nazionale.

Lo Stato detta i princìpi generali in materia d’istruzione; e tutta la organizzazione scolastica ed educativa è sotto il suo controllo.

Il conferimento dei titoli legali di studio e di abilitazione professionale spetta allo Stato il quale stabilisce le prove e le condizioni necessarie per conseguirli.

Art. 3.

La scuola è aperta al popolo. Ogni cittadino ha diritto a tutti i gradi d’istruzione, senz’altra condizione che quella dell’attitudine e del profitto.

La Repubblica detterà le norme che garantiscano ai più meritevoli l’esercizio di tale diritto.

L’insegnamento primario — da impartirsi in otto anni — è obbligatorio e gratuito fino ai quattordici anni.

Scuole gratuite di lavoro saranno istituite presso fabbriche, aziende rurali, cantieri, ecc., perché i giovani lavoratori possano meritare in poco tempo una effettiva qualifica di mestiere.

Art. 4.

La organizzazione d’istituti privati d’insegnamento e di educazione è permessa sotto la vigilanza e il controllo dello Stato e nei limiti della legge.

La scuola privata ha pieno diritto alla libertà d’insegnamento.

Art. 5.

Tutte le organizzazioni educative popolari — circoli di cultura di fabbrica e di villaggio con le loro biblioteche, università popolari, scuole serali, associazioni sportive, ecc. — sono favorite dallo Stato.

Art. 6.

I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono un tesoro nazionale e sono posti sotto la vigilanza dello Stato.



(1) Umberto Tupini, La nuova Costituzione. Presupposti, lineamenti, garanzie. Roma, 1946, pag. 19-21.

Guido Gonella, Il programma della Democrazia Cristiana per la nuova Costituzione. Relazione al primo Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, Roma 24-27 aprile 1946, pag. 33 seg.

(2) Programma della Democrazia Cristiana. Pag. 33.

(3) Rammentiamo le memorabili parole ch’egli pronunciava nel 1882: «Sono spostati, dannosi alla società, tutti coloro che attendono ad un ufficio intellettuale mentre non vi hanno attitudine e meglio si dedicherebbero a faccende manuali; ma sarà difficile impedire che si facciano degli avvocati, degli ingegneri, dei professori i quali poi, rimanendo senza cause, senza incarichi, senza scolari, ne attribuiscono la colpa alla nequizia umana e siano perennemente inquieti. Un’altra classe di spostati è quella di coloro che, per non avere istruzione o capitali, sono costretti a lavori manuali, mentre in essi la potenza intellettuale è di gran lunga maggiore della forza materiale… Le cose andrebbero assai meglio se tutti fossero al loro posto; e se quelli che hanno naturale ingegno avessero anche l’istruzione sufficiente per trarne profitto, non solo a vantaggio proprio e delle loro famiglie, ma anche dell’industria e dell’intera società.

(4) Tupini, Op. cit., pag. 20.

(5) Pag. 33.

(6) Pag. 77.

(7) Nel discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 2 dicembre 1886.

(8) Educazione e scuola laica. Firenze, 1927, pag. 116.

(9) Pag. 33.

(10) Atti Parlamentari – Sessione 1876-77. Stampato 41-a, pag. 2

(11) L’Azione scolastica cattolica, Roma 1927 (Num.1).

(12) Che nell’articolo 62 prevede la istituzione di un insegnamento facoltativo di religione nelle Scuole medie.

(13) Pag. 17 «Egli (Gentile) ebbe agio, vigore e costanza di tradurre in termini legislativi tutta la somma delle rivendicazioni scolastiche che hanno per oggetto e confine il principio della libertà e della spiritualità della Scuola. La sua opera è stata per certo poderosa…».

(14) Si tenga conto che gli scritti Educazione e Scuola laica furono raccolti dal Gentile nel 1921 e la terza edizione (Vallecchi, Firenze) è del 1927, dell’anno cioè in cui usciva l’opuscolo dell’Azione Cattolica.

(15) Pag. 124.

(16) Op. cit., pag. 138

(17) Op. cit., pag. 88.

(18) Op. cit., pag. 138. Gentile era ancora lontano dal riconoscere — come avvenne per ultimo — la superiorità della «filosofia inferiore». Se l’avesse riconosciuto egli — filosofo qual’era — avrebbe forse esitato nel servire la vacua e ipocrita religiosità del fascismo.

(19) Op. cit., pag. 90-93.

(20) Op. cit., pagg. 94, 97, 111.

(21) Pag. 74.

(22) Pag. 34.

(23) Tupini, Op. cit., pag. 7.

(24) Pag. 28.

 

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